GAMBA, UNA LEGGENDA MONDIALE!

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Dici Sandro Gamba e fatichi a trovare un aggettivo che lo contenga tutto. E’ stato vincente come giocatore: dieci scudetti a Milano, oltre a due Olimpiadi con la Nazionale dove si è guadagnato i gradi di capitano. E’ stato vincente come allenatore: cinque titoli italiani, un paio di coppe Campioni e altrettante coppe delle Coppe il bilancio sulle panchine di Milano (come vice), Varese, Torino e Virtus Bologna. E’ stato vincente come ct azzurro: un titolo Europeo, l’argento olimpico, più un argento e un bronzo continentali. E’ stato vincente come personaggio: non è un caso che gli americani l’abbiano inserito nella Hall of Fame, dopo il suo maestro Cesare Rubini e prima di Dino Meneghin. Oggi, a 87 anni, è un osservatore attento di tutto il basket, italiano e non solo, che giudica con lo stesso rigore di quando in campo c’era lui.

Gamba, lei è fra i pochi che sono stati campioni sul campo e in panchina: c’è una qualità che ha fatto da filo conduttore di una carriera di successi durata oltre quarant’anni?

‘Una volontà di ferro: quando prendo una decisione, difficile farmela cambiare’.

Come definirebbe la sua carriera?

‘Una soddisfazione enorme: nel basket sono riuscito a fare cose impensabili per uno al quale avrebbero dovuto amputare una mano’.

Racconti.

‘La storia è nota. Per me il giorno della Liberazione è anche quello in cui rimasi ferito. Il 25 aprile del ’45 stavo giocando a pallone vicino a casa, in via Washington a Milano, quando iniziò uno scontro a fuoco (fra fascisti e partigiani, ndr) e venni colpito a una mano. Per i medici bisognava amputare. Fu un capitano dell’esercito americano, Elliott Van Zandt, che poi sarebbe diventato ct della nostra nazionale, ad aiutarmi: mi insegnò alcuni esercizi, come schiaffeggiare un pallone e palleggiare tutto il giorno, che mi consentirono di recuperare la sensibilità perduta. Da lì ho scelto il basket, che mi ha dato anche un lavoro, perché oltre a giocare facevo il rappresentante per la Simmenthal. E dire che volevo fare il ciclista (è nato il 3 giugno, giornata mondiale della bici, ndr): la prima gara, a 14 anni, l’ho vinta subito’.

Tanto di guadagnato per il basket: ha avuto prima un grande giocatore e poi un grande tecnico.

‘Devo tutto a Cesare Rubini. A 18 anni mi ha portato in prima squadra: il resto, a seguire. Poi mi ha chiesto di fargli da vice quando di anni ne avevo 33: ci ho pensato su una notte prima di accettare. Anche se di essere destinato alla panchina l’avevo capito prima: quando parlavo, i compagni mi davano retta. Una leadership naturale, forse perché qualche scudetto e un paio di Olimpiade sulle spalle l’avevo…’.

Da lì sono arrivate le panchine di Varese, Torino, Bologna, oltre a quella della Nazionale.

‘Un orgoglio aver guidato la squadra azzurra: mai mi sarei aspettato di arrivare su quella panchina’.

Tre compagni di squadra speciali?

‘Parlo della mia prima Borletti, quella del 1951. Sergio Stefanini, atleta prodigioso, tra i migliori in Italia sui 400 metri, anche se non perfetto nei fondamentali del basket. Poi Romanutti e Pagani. In seguito sarebbe arrivato Riminucci, formidabile per carattere e agonismo’.

Tre avversari da ricordare?

‘Ce ne sono tanti. Tra i più bravi, Alesini e Calebotta della Virtus. All’estero Borras e Galindez, due oriundi portoricani che giocavano nel Real Madrid’.

Il suo quintetto ideale fra i giocatori allenati?

‘Brunamonti in regìa, Riva guardia, Bisson esterno, Meneghin centro. Come straniero, Bob Morse’.

Altro gioco della memoria: il podio dei suoi successi?

‘In cima, lo spareggio tricolore Milano-Virtus Bologna, il giorno di Pasqua del 1951. Ero al primo anno, Rubini a un tratto mi chiama e mi dice: va’ in campo e fai qualcosa. Feci una decina di punti e qualche numero, oltre che una buona difesa, dove ero più bravo che in attacco. Fui votato miglior giocatore della gara. Fu anche la prima volta che mio padre entrò nello spogliatoio: per congratularsi, mi diede un bacio’.

Sugli altri due gradini del podio personale?

‘La prima coppa Campioni con Varese e l’oro europeo di Nantes con la Nazionale’.

Gamba, negli anni Settanta fiorì una generazione di allenatori entrata nella storia: lei, Sales, Taurisano, Guerrieri, Primo, Pentassuglia avete segnato un’epoca. Come lo spiega?

‘La scuola era buona. In Italia venivano fiori di tecnici americani a far lezione. In più tutti noi eravamo appassionati nel leggere le novità tecniche: io facevo arrivare i testi direttamente dall’America. Questa ondata iniziò già negli anni Sessanta, quando un po’ tutti cominciarono a introdurre nuovi metodi, nuovo sistemi: prima si giocava in un modo solo, imitando Tracuzzi, a suo modo un rivoluzionario, perché come i pittori qualcosa si inventava sempre. Così come pure Nikolic, che venne a lavorare in Italia, e prima ancora Van Zandt e Jim McGregor, lui pure ct della Nazionale. Fu una svolta tecnica, anche se il segreto era avere buoni giocatori: senza quelli, non cambi nulla’.

Tanti successi e un riconoscimento che premia una vita nel basket: l’ingresso nella Hall of Fame.

‘La soddisfazione più grande della mia carriera. Già da tempo si parlava di me: non ci speravo più di tanto, anche perché c’erano in ballo nomi grossi e le candidature erano limitate. Poi nel 2006, in piena notte, mi chiamano dagli Stati Uniti. ‘Coach, lei è stato inserito nella Hall of Fame’, mi dice una voce. A momenti svengo. ‘Può ripetere?’, chiedo. Era capitato solo a Rubini, che ho voluto ricordare nel mio discorso a Springfield oltre a mia moglie Stella, sarebbe poi capitato a Meneghin: è stata l’ultima grande gioia che il basket mi ha regalato’.

Se dovesse fare una relazione sul basket italiano nel terzo millennio, cosa le è piaciuto di più negli ultimi vent’anni?

‘L’organizzazione. I campi sono migliorati, federazione e lega hanno comunque dato un maggior ordine’.

Cosa le è piaciuto di meno?

‘A livello tecnico, manca un gruppo di allenatori in grado di rinnovarsi. Non ci sono più i coach che non vedono l’ora di finire il campionato per volare negli States a seguire i clinic, che restano utilissimi per la formazione: la spinta che avevamo qualche anno fa si è un po’ arrestata’.

Dove è carente questo basket?

‘Nell’insegnamento. Il basket è uno degli sport più difficili da insegnare: vedendo le partite, ci sono allenatori che qualche dubbio me lo lasciano’.

(LE 12 REGOLE DI COACH GAMBA)

In che senso?

‘Le generazioni di cui abbiamo parlato prima erano fatte di tecnici che sapevano insegnare: erano insistenti, pignoli. Magari c’era chi lavorava soprattutto sulla difesa e di quella faceva un marchio di fabbrica. Per questo c’è stato un salto di qualità. Da tempo, forse troppo, non dici più ‘quella è una squadra di Zorzi’, come succedeva in passato, riconoscendone l’impronta tecnica: il più delle volte, devi chiedere chi allena’.

In Nba succede che i coach vengano invitati a migliorare il gioco per non svalutare il prodotto. A proposito: segue le vicende d’oltre oceano?

‘Guardo tutto: professionisti, college, quanto offre la possibilità televisiva’.

Come vede questa migrazione sempre più numerosa dei nostri giovani verso le università americane?

‘E’ un fatto positivo, anche se non partono navi piene di giocatori: i talenti che vanno negli Usa sono pochi. Purtroppo finora non ho visto atleti che, finito il liceo, abbiano fatto grandi progressi, o che, tornati a casa, sono diventati leader nel campionato. Chi prende quella strada meglio che vada in un piccolo college dove ha la possibilità di giocare, possibilmente sotto grandi allenatori: ai miei tempi gente come Carnesecca e Ramsay erano veri maestri’.

Nel terzo millennio, a parte una fiammata iniziale, abbiamo visto spegnersi la Nazionale: come se lo spiega?

‘Il motivo c’è: non produciamo buoni giocatori di livello internazionale. O meglio, ne abbiamo pochi: chi siede sulla panchina azzurra ha difficoltà a coprire tutti i ruoli. Per vincere qualcosa serve talento, perché in giro di brocchi non ce ne sono. Servono anche grandi stimoli: un giocatore deve aver voglia di vincere con la maglia azzurra, non solo vestirla per fare curriculum. Aiuterebbe tutto l’ambiente: quando abbiamo conquistato medaglie con la mia Nazionale, è stata una scossa per l’intero movimento italiano’.

‘Parlo da tecnico: farei di tutto per migliorare i giocatori. Negli ultimi anni non ho notato molti progressi: nella preparazione degli atleti, e di conseguenza nel campionato, di nuovo non succede niente. Da esperto, mi colpisce che si giochi sempre nello stesso modo: non vedo più gli uno contro uno, non vedo nemmeno difendere come Meneghin, anche se Dino era unico. Incide anche la scelta tecnica degli stranieri: oggi arrivano tanti sconosciuti di modesto valore quando invece ci sarebbe bisogno di quelli che spostano davvero, come si diceva una volta. Con la loro classe erano anche i modelli per crescere le nuove generazioni, già nel guardarli i giovani miglioravano. Invece ci sono giocatori che fanno errori e, dopo due mesi, li ripetono: e questo, onestamente, non è un bel segnale’.

Angelo Costa

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Cerimonia Basketball Hall of Fame , Springfield Ma  2006

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STORIE A SPICCHI: CARLO RECALCATI

Nel quarto appuntamento con la rubrica “Storie a Spicchi” abbiamo avuto il piacere di chiacchierare con uno dei migliori allenatori italiani di sempre, Carlo “Charlie” Recalcati. Coach Recalcati ha risposto alle nostre domande, ripercorrendo i tratti più salienti e significativi della sua carriera, della sua vita e parlando tanto anche di presente e futuro. 

  1. Senza dubbio sei uno dei più grandi allenatori italiani di sempre e sei stato anche un grande giocatore. In tanti danno per scontato il passaggio da un ruolo ad un altro, ma com’è realmente? Quali sono i pro e i contro di aver vissuto entrambi i lati della medaglia?

Sinceramente, per esperienza personale e convinzione, ci sono solo dei pro e non ci sono contro. Come in tutti i momenti della vita, la cosa importante è che ognuno interpreti il proprio ruolo, nel momento in cui lo ha, essendo sé stesso e non cercando di copiare gli allenatori che in quel momento vanno di moda, in quanto questo sarebbe l’errore più grande. Ogni allenatore deve avere una sua personalità, proporsi alla squadra e ai giocatori per com’è fatto ed essere sé stesso. Soprattutto, chi è stato giocatore sa quanto è sensibile uno spogliatoio e come esso capisce se un allenatore in quel momento sta parlando con frasi preconfezionate, usate dall’allenatore che in quel momento va per la maggiore: se i giocatori percepiscono che non c’è niente di vero, ma è tutto copiato, l’autorevolezza dell’allenatore scompare. Alla fine, l’allenatore, più che esercitare la propria autorità che gli viene data dalla società o da un contratto, deve essere capace di essere autorevole. Credo proprio, quindi, che il pro nel passare da giocatore ad allenatore sia questa esperienza che il giocatore ha maturato nello spogliatoio nel capire gli umori interni tra i giocatori stessi, ma anche tra giocatore e allenatori avuti, quindi il sapere che cosa un giocatore si aspetta da un allenatore, ovvero innanzitutto che l’allenatore sia sé stesso, con i suoi pregi e difetti.

Un altro pro del giocatore che diventa allenatore è che esso si è confrontato durante la sua carriera con molti allenatori e quindi con diverse metodologie, avendo la possibilità di fare proprie quelle più adatte al suo modo di vivere la pallacanestro e al suo modo di essere. Questo significa mettere a frutto l’esperienza di altri e quindi essere un passo avanti nel non commettere magari errori che, chi non ha mai giocato, potrebbe fare all’inizio della sua carriera.

  1. A proposito di medaglie, le ultime della nazionale italiana risalgono alla tua Italia. Che cosa credi sia successo, da quel momento ad oggi, al movimento azzurro, che non riesce a decollare nuovamente? Qual è la ricetta per rilanciarlo secondo te?

Qui dobbiamo veramente andare indietro nel tempo. La medaglia alle Olimpiadi è rimasta, poi ci fu una medaglia ai giochi del Mediterraneo, però è chiaro che nella memoria di tutti c’è l’argento olimpico di Atene. L’errore che venne fatto allora fu quello di non recepire una situazione che già era in divenire, ovvero quella che noi avevamo una nazionale che aveva molti giocatori a fine carriera e che c’era poco ricambio all’orizzonte. Io dissi queste cose all’indomani della conquista dell’argento come monito, dicendo che se non avessimo rimediato a questa situazione tornando a formare dei giocatori di livello internazionale, non avremmo rivinto per un po’ di anni. Il problema del nostro movimento, allora e ancora adesso, è che noi abbiamo sicuramente dei giocatori di livello internazionale, però ne abbiamo troppo pochi rispetto alle nazionali che vanno per la maggiore. Abbiamo sempre difficoltà a formare una nazionale fortemente competitiva: ci sono sicuramente giocatori di livello internazionale, però completiamo sempre i vari roster con giocatori con poca esperienza e valore internazionale. Il mio pensiero è che, rispetto a tutte le altre nazioni, noi abbiamo molti meno giocatori di livello alto. Questa è una cosa che io dissi allora, ma essa venne presa come una cosa detta per esaltare ancora di più i successi della mia nazionale.

È chiaro che una ricetta è difficile da avere, non c’è solamente un modo per cercare di porre rimedio alla pochezza di giocatori di livello internazionale. Purtroppo, in questi anni, ci siamo riempiti la bocca con i nostri bravissimi giocatori che sono andati a giocare in NBA, dimenticandoci di fare una valutazione di carattere generale di quella che è l’NBA e di quanti giocatori le altre nazionali avevano nella Lega, quindi a fronte dei nostri ¾, vi erano nazionali che ne avevano molti di più. Purtroppo, siamo un movimento che si è stabilizzato, dimenticandoci del fatto che proprio noi, per un certo periodo, siamo stati i primi ad essere innovativi ed un esempio per gli altri sport a livello di innovazioni. Ad esempio, il basket in Italia è stato il primo ad assimilare dagli Stati Uniti il format dei playoff; inizialmente vi furono delle critiche, ma alla fine è stata un’idea che ha fatto fare un grande salto di qualità al nostro movimento e al nostro campionato, in quanto in quel momento sono arrivati non solo nuovi spettatori, ma anche nuovi sponsor. Questo per dire che noi dobbiamo cercare di non sederci su quello che è stato fatto, perché nel momento in cui ti siedi, regredisci, non rimani stabile, perché gli altri allo stesso momento vanno avanti. Noi dobbiamo cercare sempre di trovare nuove situazioni che possano permetterci di migliorarci.

L’errore che noi abbiamo fatto e che stiamo facendo è che pensiamo che sia sufficiente l’attività giovanile per arrivare alla completa maturazione di un giocatore. Forse così succede negli altri Paesi, ma non nella nostra pallacanestro. Noi abbiamo ragazzi che a 14 anni hanno grossi problemi motori e di obesità, quindi non è sufficiente l’attività che va dai 14 ai 18 anni perché questi possano migliorarsi tecnicamente e fisicamente, ma abbiamo bisogno di fare in modo che questi ragazzi, finita l’attività giovanile abbiano la possibilità concreta di completare la loro formazione, non solamente continuando ad allenarsi, ma anche e soprattutto avendo la possibilità di confrontarsi e giocare. Avevamo pensato di risolvere questa cosa obbligando le società di Serie A e LegaDue a mettere a referto un certo numero di giocatori italiani e alle società dei campionati minori di mettere a referto un certo numero di giocatori under; il problema è che mettere a referto un numero fisso di giocatori, non significa che poi chi va a referto viene utilizzato e gioca, quindi non si risolve il problema del farli giocare. A distanza di 20 anni noi non abbiamo fatto niente, mentre a distanza di 5/6 anni dalla medaglia d’argento avevamo già preso coscienza del fatto che l’obbligo a referto non produceva risultati per la formazione dei nostri giocatori e avremmo dovuto già allora intervenire mettendo da parte l’obbligo e trovando un sistema d’incentivazione affinché le società professionistiche e non fossero incentivate a far giocare i giocatori italiani e quelli giovani, ma questo non è stato fatto. Ad un certo punto c’è stata l’introduzione dell’incentivazione economica per chi fa giocare per il più alto numero di minuti gli italiani, ma non è sufficiente perché noi abbiamo bisogno di incentivare tutto il movimento e tutte le squadre.

La mia idea, che ho espresso anche in Federazione, è quella di togliere l’obbligo a referto e di parlare di incentivazione nell’utilizzo di giocatori italiani, premiando ulteriormente le società che producono giocatori, facendo giocare i giovani del proprio settore giovanile. Chiaro, non è detto che questa sia la soluzione a tutti i problemi, però quantomeno potrebbe essere un tentativo, invece noi siamo qui fermi e continuiamo a lamentarci, senza però provare a cercare delle soluzioni.

  1. Hai vissuto in diversi momenti cestistici con il basket che, soprattutto in questi ultimi anni, è profondamente cambiato proprio a livello di gioco. Quali sono le differenze che tu vedi rispetto al passato? Cosa ti piace di più e cosa di meno?

Parliamo veramente di due sport diversi. Quando io ho iniziato forse non si chiamava neanche pallacanestro, ma palla al cesto. C’è stato veramente un cambiamento radicale del gioco. All’inizio era uno sport dove ogni contatto veniva penalizzato e sanzionato, quindi era uno sport di non-contatti, mentre ora è diventato uno sport di contatti ed è meglio così. Io non sono uno di quelli che dice “ah ma ai miei tempi era tutta un’altra cosa…”, perché credo che bisogna vivere nel momento in cui si fanno le valutazioni. Probabilmente allora andava bene così perché anche la consistenza degli atleti era differente, poi successivamente è anche cresciuta la cura nella preparazione fisica e le generazioni sono migliorate dal punto di vista atletico e fisico. Le generazioni come la mia, che sono uscite dal dopoguerra, avevano anche problemi diversi perché dal punto di vista fisico non abbiamo avuto la crescita che hanno avuto le generazioni successive che hanno vissuto in un momento in cui è iniziato il benessere. L’evoluzione delle possibilità atletiche e fisiche hanno fatto sì che cambiasse anche il modo di interpretare la pallacanestro.  Dal mio punto di vista, l’ideale sarebbe se la tecnica e il talento che allora si sviluppavano, si potessero sviluppare ancora oggi, in abbinamento alle qualità atletiche e fisiche che i giocatori di oggi hanno: se fosse così, probabilmente avremmo una pallacanestro migliore. Come detto, però, bisogna adattarsi ai tempi. Poi, chiaramente, vi è stata l’introduzione del tiro da tre punti che ha completamente cambiato un’altra volta il modo di giocare. Se vogliamo parlare di cosa sarebbe ideale, sicuramente lo sarebbe l’equilibrio tra la tecnica e la prestanza fisica e atletica e quello tra il gioco interno ed esterno all’area.

  1. Se c’è una cosa che tanti tuoi giocatori hanno esaltato di te, è la tua capacità di capire l’uomo. Charlie Recalcati come interpreta il ruolo dell’allenatore? Secondo te è più importante il fattore e l’apporto tecnico o ha preponderanza quello umano?

Io sono sempre stato un giocatore molto attento a quello che mi capitava intorno, quindi per me era importante capire cosa voleva l’allenatore da me e dalla squadra, perché avevo realizzato che se io capivo lo scopo di un esercizio o di una metodologia mi applicavo meglio, conoscendone il perché. Io ho avuto la fortuna, nella mia carriera, di avere tre allenatori molto diversi tra di loro.

Il mio allenatore in Serie A è stato Gianni Corsolini, che dava una grande importante alla tecnica, ma soprattutto alla persona e quindi alla considerazione che lui aveva dei singoli giocatori non solo per ciò che loro facevano in campo, ma per i valori che loro potevano avere e quindi cercava di trasferirci importanti valori umani. Lui diceva che prima di essere un bravo giocatore, era necessario essere delle brave persone.

Dopo ho avuto Arnaldo Taurisano, che oltretutto è stato colui che mi ha insegnato quando ero ragazzino e poi l’ho ritrovato in Serie A. È stato, dal punto di vista tecnico molto importante perché con lui ogni allenamento era un clinic e soprattutto aveva la capacità di farti capire il perché dovevi fare una cosa e il perché dovevi fare un certo esercizio.

Infine, ho avuto un personaggio di un’ingombranza pazzesca, un vero genio, tant’è vero che quando ha smesso di fare l’allenatore, è diventato segretario generale FIBA, ovvero Boris Stanković. Lui aveva un visione della pallacanestro a 360°, quindi non la vedeva solamente sotto l’aspetto del giocatore o dell’allenatore, ma la vedeva tenendo conto di tutto, delle regole e dei rapporti. Lui considerava sempre tutte le componenti, che non sono solo i giocatori o gli allenatori, ma anche i dirigenti, i proprietari, i giornalisti, il pubblico e ognuno doveva avere, da parte nostra, una considerazione. Lui ci diceva che noi potevamo essere bravi a far canestro quanto volevamo, ma se non ci fosse stato il fisioterapista, il magazziniere, il cronista, l’arbitro, noi saremmo stati qualcosa dentro un mondo che non sarebbe potuto esistere senza altre componenti. Queste cose qua me le sono fatte mie e ho cercato, nel mio approccio verso i giocatori, di avere una visione di questo tipo, quindi cercando di trasferire loro e fargli capire che il nostro mondo è molto bello, però alla fine non siamo noi al centro dell’universo, ma siamo una parte di esso, quindi è necessario avere una visione ampia delle problematiche che ci sono, non solo nel nostro lavoro, ma nel mondo.

Fondamentalmente, io ho sempre cercato, nel corso degli anni, crescendo e cambiando tantissimo, di essere me stesso e di non cambiare mai il mio modo di essere. Questa credo sia la cosa che ha sempre catturato l’attenzione e il rispetto dei giocatori.

  1. Hai vinto tanto in Italia, hai vinto con l’Italia, ma non sei mai andato all’estero. Come mai?

Non è stata una scelta, sono state più che altro situazioni. Ci sono stati due momenti in cui io potevo andare all’estero, uno da giocatore e uno da allenatore.

Il primo, quello da giocatore, fu nel 1972 quando venni escluso dalla nazionale e mi arrivò un’offerta dei New York Nets che mi chiesero di passare al professionismo. Io non l’accettai perché il mio obiettivo era quello, dopo l’esclusione dalla nazionale, di riconquistare la maglia azzurra per le Olimpiadi del 1976; in quel periodo, i giocatori professionisti non potevano giocare le Olimpiadi ed esisteva una regola della federazione italiana che qualunque giocatore provenisse da campionati esteri, pur essendo in possesso di passaporto italiano, veniva considerato proveniente da federazione straniera e veniva considerato come straniero. Il pensiero di andare a New York è durato il tempo di fare tutte queste considerazioni, poi ho rifiutato l’offerta perché per me la cosa più importante era la conquista di un posto in nazionale.

La seconda volta invece, da allenatore, fu dopo lo scudetto di Varese nel 1999: io avevo già un accordo con Malaga ed eravamo ai dettagli, poi durante la trattativa è intervenuta la Fortitudo e quindi la possibilità di rivincere il campionato appena vinto con Varese e la scelta è stata automatica di andare in Fortitudo, piuttosto che a Malaga.

A livello di nazionale, mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza in Cina. Ebbi dei contatti, però loro in quel periodo volevano passare ad una gestione tecnica cinese e cercavano semplicemente degli allenatori stranieri che potessero fare da tutor all’allenatore cinese, ma la cosa non mi piacque.

  1. Invece, oggi, sempre più giovani italiani scelgono di andare all’estero, in particolare negli USA, per continuare il proprio percorso di formazione cestistica. Qual è il tuo pensiero sulla scelta di andare al college? Che segnale da questa cosa ad un movimento?

In parte potrebbe essere un segnale d’allarme per il movimento, però bisogna anche essere aperti e pensare che non vi è solo una regola fissa su come devono essere fatte le cose e quindi si possono ottenere comunque risultati battendo strade diverse. Considerando la globalizzazione e i tempi, penso sia giusto anche scegliere e fare esperienza di questo tipo, dove magari si ha la possibilità di crescere meglio in un contesto diverso. Sarà il tempo che poi dirà se questo darà dei frutti o meno. Abbiamo avuto dei giocatori che sono stati nei college ma non hanno avuto una crescita, a fronte però di altri che invece hanno avuto un ottimo percorso dopo il college, come ad esempio Daniel Hackett. Io penso che vada bene tutto, si tratta di fare delle scelte e, come in tutte le cose, credo che la prima cosa da non fare sia fare una determinata scelta per moda. Deve essere una scelta ponderata e valutata sulla propria situazione, sul proprio modo di essere e sulle proprie possibilità di avere sbocchi in Italia, piuttosto che all’estero. La cosa importante è trovare la situazione ideale, che sia in Italia, Stati Uniti o altrove, che sia la migliore per la propria formazione.

  1. Hai conosciuto e visto tante generazioni di campioni e allenatori. Quali sono secondo te i protagonisti che, in un modo o nell’altro, hanno lasciato un segno indelebile nella pallacanestro?

Questa è una domanda veramente complicata, ma ho cercato di segnarmi qualche figura che per me è stata davvero iconica.

Per quanto riguarda gli allenatori, te ne cito due. Giancarlo Primo, un allenatore con cui ho avuto sicuramente dei problemi, in quanto è stato quello che mi ha escluso dalle nazionali, però devo dire che lui ha insegnato a tutta Europa e non solamente all’Italia, che la pallacanestro non era solo attacco, ma è anche difesa. Quando lui iniziò ad allenare la nazionale, l’Italia era l’unica nazionale in tutta Europa che aveva dei concetti difensivi di squadra. Lui secondo me ha cambiato la pallacanestro europea. Un altro allenatore che mi sono appuntato è Phil Jackson, perché è stato quello che ha mostrato a tutti cosa voleva dire avere uno staff e credere nel lavoro di squadra, non solo a livello di giocatori, ma anche a livello di staff tecnico. Lui ha avuto un assistente come Tex Winter, che è stato l’allenatore che ha insegnato a tutto il mondo il triangolo offensivo, ed ha avuto la capacità di inserire nel proprio staff un collaboratore che potesse insegnare a lui come essere un allenatore migliore. Poi, ha dato importanza non solo all’aspetto tecnico e fisico dell’atleta, ma ha capito che era fondamentale lavorare anche sulla testa dei giocatori, inserendo nel suo staff anche dei collaboratori che facevano questo tipo di lavoro. A mio modo di vedere, ha cambiato sicuramente la concezione e la percezione verso questo punto di vista.

Per quanto riguarda i giocatori, ti faccio un’altra lista. Innanzitutto, Divac e Nowitzki, che sono stati, a mio avviso, i giocatori europei che per primi hanno mostrato all’NBA quanto i giocatori europei fossero competitivi. Ci sono stati sicuramente altri giocatori europei in NBA prima di loro, ma nessuno che abbia inciso come loro. Mi sono poi segnato Ćosić, che fu il primo giocatore di statura, che non fosse esclusivamente d’area, ma uno che sapeva giocare in tutte le posizioni del campo ed era un lungo di 2,11 metri che diventava di fatto il perno della squadra. È stato il primo lungo moderno. Infine, Andrea Meneghin, che nel 1999 era stato votato miglior giocatore europeo, e che, solo per sfortuna a livello di problematiche fisiche, non ha continuato ad essere il miglior giocatore europeo.

  1. Prima da giocatore e poi da allenatore, ti sei ritrovato a girare ovunque in Italia, a dimostrazione che non sempre la carriera professionistica è così facile come tanti pensano. Qual è il “prezzo” da pagare per avere una grande carriera? Qual è il futuro di Recalcati nel basket? Come e dove le piacerebbe portare ancora un contributo vero e fattivo?

Allora, innanzitutto, io appartengo alla categoria degli ex giocatori che hanno avuto la fortuna, a differenza di quello che succede oggi, di giocare per 17 anni nella stessa squadra. Oggi questo non succede più, mentre una volta succedeva. Sono cambiati i tempi, dopo la sentenza Bosman i giocatori sono diventati liberi. Oggi, quando uno inizia la carriera di giocatore o allenatore, deve mettersi da subito in testa che il cambiamento è all’ordine del giorno, quindi se vuole fare questo mestiere deve essere pronto a spostarsi in tutta Italia o in tutto il mondo. Secondo me, è solo un fatto di formazione mentale e chi entra nel mondo dello sport e della pallacanestro cresce con questa convinzione e non si immagine neanche quello che succedeva prima. Se un giocatore si inizia a mettersi dei limiti a livello geografico, inizia ad essere problematico, anche perché la carriera di un giocatore o di un allenatore è fatta di occasioni.

Più che futuro, parlerei di presente. Io l’ho fatto sempre da giocatore, poi da quando ho incontrato Stanković l’ho fatto anche da allenatore e da CT: non mi è mai piaciuto concentrarmi solo sull’aspetto tecnico del gioco, ma volevo anche capire cosa succedeva intorno a me e capire l’implicazione delle regola che muovono uno sport, anche dal punto di vista politico. Sto molto bene, innanzitutto a livello di salute, ma sto bene nell’equilibrio che ho sempre avuto e che continuo ad avere anche adesso che non sono direttamente impegnato. Mi piace tenermi aggiornato e continuo a vivere la realtà del basket nel presente, con il piacere di poter parlare, ogni tanto, delle mie idee e delle esperienze maturate e di cosa sarebbe necessario fare per il nostro movimento, senza avere la presunzione o voler avere un ruolo, piuttosto che dei contratti, ma per poter essere utile con le idee a chi poi deve decidere cosa fare della nostra pallacanestro. Io continuo ad avere un ruolo attivo nella pallacanestro, perché in ogni occasione che mi capita, esterno il mio pensiero e le mie idee, perché è una cosa che mi piace fare. Non sono mai andato a cercare io delle cariche; anche in questi giorni si parla di me come prossimo presidente della LegaBasket: io sono contento che si possa fare il mio nome, perché significa che qualcuno mi reputa adatto in una situazione del genere, però non sono sicuramente io che vado a propormi. Se ritengono che possa essere utile, mi verranno a cercare.

Si ringrazia per l’enorme disponibilità e gentilezza coach Carlo Recalcati.

di Lucia Montanari

 

 

STORIE A SPICCHI: LUIGI DATOME

Nel terzo appuntamento con la rubrica “Storie a Spicchi”, abbiamo chiacchierato con un altro grande personaggio della pallacanestro italiana: il capitano della nazionale e giocatore del Fenerbahçe, Luigi Datome. “Gigi” ha risposto alle nostre domande, trattando tantissimi temi interessanti, che toccano tutta la vita di un giocatore, fuori e dentro il campo.

Luigi Datome da Olbia: il tuo animo sardo l’hai sempre portato in alto con orgoglio. Qual è il legame che hai con la tua terra d’origine?

“Un legame viscerale, un cordone ombelicale che non si staccherà mai. È un po’ la mia Itaca, il mio punto di ristoro, la mia forza nei momenti in cui ho bisogno di ricaricare le batterie. Non l’ho mai nascosto, per me la Sardegna è qualcosa di speciale, che forse chi non è sardo non riesce a comprendere appieno.”

Una vita lontano da casa per seguire la tua passione, la pallacanestro. Cosa significa per una persona allontanarsi dalla famiglia, già da ragazzino, per seguire il proprio sogno? Ti piacerebbe un giorno tornare vicino a casa?

“Significa in primis sfidare se stesso, prendere la propria vita in mano e provare farne qualcosa di bello. E attenzione, provarci non vuol dire riuscirci. Quando da piccolino feci le valige in direzione Siena mai avrei pensato di compiere un percorso così completo come quello che ho fatto finora. Prima era solo una grande passione, un grande sogno.
Se mi piacerebbe tornare vicino casa? Forse a finire la carriera, per tornare spensierato, magari per giocare con gli amici. Ma non so se per qualcosa di competitivo.”

Ormai da quattro anni giochi al Fenerbahçe, sotto la guida di una leggenda come Obradovic. Cosa vuol dire per un giocatore essere allenato da coach di questo calibro? Cosa ti ha dato la sua guida in questi anni?

“Zelijko è una leggenda del basket, quando ricevetti la sua chiamata volli subito incontrarlo. Fu il suo carisma a convincermi. Mi spiegò che cosa aveva in mente e come mi vedeva nel suo sistema, fu amore a prima vista. È un allenatore che non ha mai dubbi, sa sempre qual è la cosa più giusta per la squadra. Perché riesce a mettere il gruppo sempre avanti a tutto. E questa è una chiave di lettura che a me convince tantissimo: nello sport di squadra si può vincere solo con un grande gruppo.”

Sei sicuramente un giocatore di primo livello a livello europeo e nazionale, ma in NBA hai incontrato qualche difficoltà nel trovare spazio: che cosa non ha funzionato in quell’esperienza? Come ha impattato sul tuo approccio, sia mentale che tecnico, alla pallacanestro?

“La NBA è un mondo particolare, fatto di tante variabili che spesso noi europei nemmeno comprendiamo. Io arrivai dopo una estate con la Nazionale, non stavo bene fisicamente per un problema al piede che mi portai dietro in tutto l’Europeo. Ci giocai sopra e al mio arrivo a Detroit mi fermai, saltando training camp e preseason. Diciamo che in quel momento ho perso qualche posto nelle gerarchie, ma sono felice di ciò che ho fatto in America, perché con la trade a Boston sono riscito a dimostrare a me stesso che in quel mondo potevo starci, dovevo solo trovare occasione giusta e posto giusto. Tutto questo mi ha fatto capire che è fondamentale non perdersi mai d’animo, lavorare sempre duro, perché le cose possono cambiare in poche ore. Come è appunto successo a me.”

Cosa significa la maglia azzurra per Luigi Datome, capitano della nazionale? Secondo te il futuro dell’Italia può essere azzurro?

“E’ semplicemente una seconda pelle. Credo non sia necessario aggiungere molto di più. Come dicevo prima ho sacrificato anche una stagione NBA per questa maglia. E l’ho fatto perché quella maglia è qualcosa di unico, che ogni cestista sogna da ragazzino. Il futuro? C’è tanto da lavorare, dobbiamo farlo con costanza e passione.”

Sei il presidente dell’Associazione Giocatori Eurolega: raccontaci qualcosa su questo progetto e sul tuo ruolo. Pensi che, soprattutto oggi, sia maggiore il bisogno di tutelare voi giocatori?

“Alla prima assemblea sono stato votato come presidente e non potevo certo dire di no. È una bella responsabilità, che mi responsabilizza e mi piace. L’obiettivo è cercare di dare a tutte le squadre di Eurolega degli standard minimi da rispettare per tutelare noi atleti. Ragioniamo di trasferte, di hotel, di adesivi sul campo, di tutele sanitarie, insomma tutto. Devo dire che stiamo lavorando bene, a braccetto con la stessa Euroleague.”

Come impatta sulla vita di tutti i giorni di una persona, il fatto di essere un atleta professionista in termini di tempo libero, alimentazione, stile di vita, ecc?

“Nella mia vita poco, nel senso che ormai ho preso il mio ritmo, il mio standard. E sto benissimo così. Quindi mangio senza eccessi, bevo poco o niente, e difficilmente faccio le ore piccole. Ho la mia routine nella quale sto bene e mi sento a mio agio. Insomma, non mi pesa, non vivo nulla come una rinuncia, anzi percepisco ogni cosa come parte integrante della splendida vita che ho la fortuna di vivere.”

Nella carriera di un giocatore sicuramente possono esserci partite storte, in cui magari non si mette in campo la miglior prestazione: che cosa succede nella testa di un giocatore nel momento in cui il suo punto di forza (tiro, penetrazione, difesa, ecc) durante una partita non funziona o viene limitato dagli avversari e si fa fatica ad esprimere il proprio gioco? Credi che imparare a reagire a questi momenti sia determinante per diventare un grande giocatore?

“E’ certamente determinante. Non siamo macchine, non siamo robot, momenti di down possono capitare. L’importante è avere il lavoro, la ripetizione e l’allenamento alle spalle. È da lì che puoi prendere la forza per reagire e far valere le tue certezze. Lo dico sempre, la ripetizione in palestra, l’allenamento e la costanza sono le migliori medicine a dei momenti di difficoltà. Poi certo non sono le uniche, ma avere delle basi solide certamente aiuta. “

Usi i social assiduamente, in maniera positiva e propositiva, cercando di dare una sorta di “buon esempio”. Che cosa pensi dei social network e dei messaggi variegati, sia positivi che negativi, che vengono espressi su di essi?

“Sono una delle cose più belle che possiamo avere per le mani, ma allo stesso tempo possono essere pericolosissimi. Come dissi qualche tempo fa credo sia opportuno sempre di più mettere dei paletti, non dare la possibilità di fare tutto e di pubblicare tutto. Ci vorrebbe più controllo per evitare situazioni spiacevoli che possono degenerare. Io, da parte mia, cerco di essere sempre il più vero e trasparente possibile, di metterci la faccia sempre per essere me stesso anche sui social.”

Sei un divoratore di libri, lo hai ammesso anche tu. Com’è nata questa tua passione per la lettura e cosa ti ha dato nella vita? E invece, cos’hai provato nel momento in cui il libro sugli scaffali era il tuo?

“La lettura mi aiuta a rilassarmi, a staccare la spina, a volare un po’ via per qualche momento. È un mezzo unico per scacciare pensieri e rigenerarsi.
Scrivere Gioco Come Sono? Quando me l’hanno proposto ho un po’ nicchiato, ma poi con Francesco ci siamo decisi. È stato un viaggio attraverso la mia vita, la mia passione, il basket, e spero ne sia uscita qualche di bello. Di sicuro è qualcosa che mi rispecchia, che fornisce a chi legge una fotografia reale di quello che sono.”

Si ringraziano per la disponibilità e la gentilezza Luigi Datome e Francesco Carotti.

Immagine in evidenza: Fonte FIBA

Di Lucia Montanari

STORIE A SPICCHI: SERGIO SCARIOLO

Dopo Ettore Messina, abbiamo il piacere di “ospitare” per la nostra rubrica “Storie a Spicchi” un altro grande allenatore come Sergio Scariolo, allenatore campione NBA con i Toronto Raptors la scorsa stagione e campione del mondo con la Spagna lo scorso settembre in Cina. Coach Scariolo ha risposto alle nostre domande sul mondo collegiale, sul sistema spagnolo e ci ha raccontato anche qualche “segreto” di famiglia.

  1. Suo figlio ha appena accettato una scholarship a Manhattan, college di Division I: cosa pensa che l’esperienza collegiale possa dare ad un giocatore in formazione, sia dal punto di vista tecnico che caratteriale?

Io credo, pensiero confermato da amici come Paolo che ha un’esperienza fresca e attiva ancora con Davide, ma soprattutto da molti giocatori che hanno giocato nei college, i quali mi hanno detto tutti che quegli anni sono stati i più belli della loro vita, per una ragione o per l’altra. Tutti in famiglia avevamo la sensazione che questa esperienza valeva la pena di essere vissuta.

Dal punto di vista tecnico è talmente differente la situazione di un giocatore in una squadra e in certe situazioni, oltre al talento, è necessaria anche un pizzico di fortuna; infatti, da questo punto di vista, è un bilancio che faremo a posteriori. A priori, però, dal punto di vista personale, è la prima volta per mio figlio fuori di casa, vivrà in una grande città come New York, avrà la famiglia relativamente vicina, ma non tanto da poterlo aiutare quando ne ha bisogno nell’immediato e soprattutto si troverà davanti una nuova situazione a livello di gestione del tempo libero; anche se il programma giornaliero è molto strutturato, avrà un margine di autonomia in cui un ragazzo deve sapersi organizzare.

  1. Sempre più giovani, dopo l’esperienza europea, scelgono la strada collegiale oltreoceano: secondo lei, cosa manca al basket europeo a livello giovanile per trattenere i talenti nel vecchio continente anche in giovane età?

Oggi in Europa, a meno che un giocatore non sia già un fenomeno da avere a 18 anni già qualità per potere essere un uomo di rotazione e non uno dei 12, come avevano offerto a mio figlio in Unicaja, farebbe fatica a trovare i minuti necessari per crescere come dovrebbe. Un conto è avere dei minuti, un altro è non averne: se uno li ha, ovviamente è una riflessione che vale la pena, mentre se un giocatore ancora non li ha non vi è nessuna discussione e nessuna scelta.

In Europa non c’è nessuna competizione per fasce di età successive ai 18 anni, le nostre università non hanno nessun interesse a facilitare la vita e l’attività sportiva dei giovani studenti-giocatori. Credo che, a priori, l’unica situazione che ti offre entrambe le possibilità di studio e gioco è quella del college statunitense.

  1. Lei può essere definito l’uomo dei tre mondi: Italia, Spagna e USA. Qual è il ricordo più bello di ognuno di questi tre?

Vi sono tanti ricordi legati a persone, luoghi, squadre e successi. È molto difficile fare un ranking. Devo essere sincero, però, sono stato fortunato perché ho appunto amici, ricordi e qualche medaglia da esporre quando, finalmente, riuscirò a fare la mia “stanza bacheca”, che è uno dei miei progetti nel momento in cui mi fermerò. Mi ritengo molto fortunato di aver potuto vivere questa esperienze in situazioni diverse, Paesi diversi, tenendo presente anche la Russia, che è stata un’esperienza molto istruttiva in tutti i sensi.

  1. Una buona parte della sua carriera l’ha dedicata, però, alla nazionale spagnola, definendosi spagnolo di adozione. Che cosa vuol dire per un coach straniero allenare una nazione non sua?

Non mi sono mai definito spagnolo di adozione, è una definizione che mi hanno “appiccicato” e che non ribatto. È chiaro che ho scelto la Spagna come mio posto di residenza per me e per la mia famiglia, anche se io continuo a pensare da italiano, mi sento italiano e non ho nessuna sensazione che questa sia una contrapposizione.

Ho avuto la fortuna di vivere in due Paesi bellissimi, al di là degli altri in cui ho vissuto, e ho radici profonde in entrambi, che si possono perfettamente complementare.

Allenare da coach straniero una nazionale non è facile, soprattutto all’inizio in cui devi guadagnarti un’accettazione non tanto professionale, ma più che altro emotiva ed affettiva con magari più successi di quanti siano necessari per un allenatore locale. È una cosa che ho accettato, poi alla fine le cose sono andate bene e quindi non è il caso di guardarsi indietro.

  1. Ci può raccontare un aneddoto particolare della vittoria all’ultimo mondiale di Cina?

Dato che stiamo parlando in italiano e fa sempre piacere farlo, ti racconto questo flash, relativo al time out che chiesi a quattro minuti dalla fine di Italia-Spagna quando Danilo Gallinari mise il tiro da tre del +4 per l’Italia: la sensazione di grande tranquillità e fiducia che mi dettero i giocatori quando tornarono in panchina è un ricordo molto bello perché mi permisero di non dire una parola a livello motivazionale, ma di incentrare tutto il time out sulla parte tecnica, perché per il resto li vedevo molto in fiducia.

  1. Il sistema spagnolo è sicuramente un’eccellenza del basket europeo e lo ha dimostrato anche all’ultimo mondiale. Che cosa le piace particolarmente di questo sistema e cosa l’Italia potrebbe imparare?

Al di là delle situazioni della pallacanestro professionistica che comunque hanno pro e contro, è chiaro che ci sono, soprattutto quando parliamo di cultura sportiva, due situazioni che rendono il gap sportivo con la Spagna abbastanza importante in generale, non solo a livello di pallacanestro.

La prima grande differenza è lo sport nelle scuole: io credo che la pallacanestro soprattutto è trattata nelle scuole elementari e medie, nei piccoli e nei grandi club, in una maniera probabilmente unica nel mondo creando basi importanti di giocatori, ma anche di spettatori. Il secondo aspetto riguarda gli impianti: non parliamo solo del numero di grandi impianti spagnoli, rispetto all’Italia, parlo soprattutto dei piccoli/medi impianti in cui i ragazzini possono praticare, anche in riferimento agli impianti scolastici che hanno un livello di funzionamento ed efficienza veramente eccellenti. Questa credo sia la cosa più ammirabile ed imitabile.

  1. Le squadre di eccellenza spagnole come Real e Barcellona lanciano giocatori anche molto giovani con relativa facilità, cosa che in Italia avviene molto difficilmente. Lei ha saggiato entrambi i mondi: che cos’ha visto e provato di diverso tra le due mentalità? Perché secondo lei l’Italia non riesce ad uscire da una sorta di “circolo vizioso” e a creare nuovamente giocatori di alto profilo, cercando di ovviare al problema tramite la naturalizzazione di alcuni giovani promettenti?

È vero che questi grandi club spagnoli lanciano dei giovani, ma non possiamo fare neanche di tutta l’erba un fascio. Sicuramente ci sono stati giocatori più giovani rispetto a squadre di pari livello avversarie in altri paesi, Italia compresa. Io credo che il fatto di avere un livello sportivo che nelle competizioni nazionali mette al riparo da grandi sorprese, almeno fino ai playoff, debba essere una motivazione aggiunta per avere coraggio e lanciare giovani giocatori: se tu sei sicuro che alla fine nelle prime due alla fine ci arrivi sempre, c’è una motivazione in più. Onestamente, però, non credo sia una cosa tanto diffusa: per non andare tanto lontano però le due squadre citate stanno facendo giocare due giovanissimi come Garuba e Bolmaro in momenti importanti di partite che non sono fondamentali, però senz’altro aiuta ragazzi del 2001/2002 a fare esperienze importanti.

  1. Capitolo famiglia: da genitore di successo, cosa si prova a vedere un figlio che intraprende il proprio sport ad alto livello? Qual è il rapporto che lei e sua moglie, due mostri sacri, avete con vostro figlio Alessandro?

Abbiamo avuto un approccio diverso: io mi sono reso conto molto presto che mio figlio voleva percorrere la sua strada in maniera molto autonoma e per un periodo ha vissuto anche come un peso i cognomi che portava sulle spalle, facendo uno sforzo di reazione verso una sorta di “indipendenza” da questi cognomi e cercando di andare per la sua strada, addirittura andando nell’estremo opposto, tentando di evitare qualunque tipo di ragionamento e discorso, soprattutto quando veniva proposto da noi.

Mia moglie, che è un po’ più emozionale ed emotiva di me, ha avuto magari momenti in cui consigli ed opinioni dopo una partita le uscivano dalla bocca, mentre io magari, grazie a ciò che mi ha insegnato il mio lavoro, sapevo che dopo le partite era meglio tacere ed attendere che fosse lui a parlarne, come poi spesso ha fatto e fa. Se uno ha la pazienza di aspettare, è lui che poi tira fuori il discorso e chiede un’opinione o un consiglio.

È stata un’emozione vederlo vincere l’europeo e anche tante piccole partite come finali nazionali, regionali, interzona, ma chiaramente il campionato europeo U18 è stato il momento emozionale più importante, in cui le cose sono andate molto bene; tra l’altro io fortunatamente in quei giorni avevo due giorni di riposo dalla nazionale spagnola dopo la prima parte del ritiro e son potuto volare in Grecia e vedere semifinali e finali.

Sergio e Alessandro Scariolo dopo la vittoria dell’Europeo U18.
  1. Com’è Sergio Scariolo nel tempo libero?

Il discorso tempo libero è molto più teorico che reale, perché allenando un club e una nazionale e avendo, almeno per il momento, la responsabilità di tutte le nazionali giovanili dal punto di vista tecnico, di tempo libero me ne resta poco e lo dedico soprattutto alla famiglia.

Mi piace fare un allenamento personale al giorno, sia di cardio che di lavoro di forza con carichi naturali o pochissimi pesi. Mi piacciono cinema e serie TV: ormai Netflix è un compagno, un po’ trascurato ultimamente, ma è sempre lì.

Oltre alla pallacanestro, poi, mi piace fare sport e i miei due preferiti sono golf e paddle, anche se stiamo parlando di cose più teoriche che pratiche perché non ho molto tempo da dedicare a queste passioni.

Si ringrazia per la disponibilità e la gentilezza coach Sergio Scariolo.

di Lucia Montanari

STORIE A SPICCHI: ETTORE MESSINA

Per la prima puntata della nuova rubrica “Storie a Spicchi” ho avuto l’onore e il piacere di chiacchierare con l’attuale coach dell’Olimpia Milano, Ettore Messina.

Coach Messina, durante l’intervista, ha affrontato diversi temi, in maniera approfondita, dando spunti molto interessanti, come una persona del suo calibro sa fare.

  1. Cosa pensi della scelta di un giovane italiano che decide di andare oltreoceano a giocare in un college? Cosa può dare l’esperienza collegiale ad un giocatore sotto il profilo culturale e tecnico?

Penso che sia una scelta molto intelligente che dovrebbero fare più ragazzi, perché dà la possibilità di trovare la competizione che in Italia ed Europa manca tra i 18 e i 22 anni e permette di vivere un’esperienza di vita fantastica come quella del college americano, in cui si ha anche l’occasione di imparare bene una lingua e completare gli studi. È una cosa che dovrebbero fare molti di più, anche perché ci sono diversi livelli di college, per cui anche se non sei uno molto bravo,  lo stesso puoi trovare un college dove giochi e fai un’esperienza così positiva. A mio parere è un’ottima scelta soprattutto a livello di vita.

Vivere e approcciarsi ad una cultura diversa, come lo è quella americana, apre la testa ad un giovane perché gli consente di conoscere persone, modi di vivere, modalità di studio e apprendimento differenti. Nei college vi è poi un fenomeno di aggregazione importantissimo che è quello della vita nel campus universitario, che porta a identificarsi con l’università e a diventare parte di un’organizzazione con la quale ci si sente veramente legati per tutta la vita. È un qualcosa che noi, qua in Italia, non possiamo neanche immaginare.

  1. Più volte in diverse interviste è stato chiesto a Davide che cosa fosse mancato per la vittoria del titolo NCAA e lui ha sempre risposto “fare fallo…”. Parto da qui per farti due domande: tu sei di un “partito” preso, ovvero fare fallo/difendere oppure si valuta situazione per situazione? Poi, che cosa succede in panchina a pochi secondi dalla fine di un match così importante durante un time out: prevalgono tecnica e razionalità o più enfasi e cuore?

Secondo me puoi avere un’idea generale, ma la maggior parte delle volte vai a sensazione, valutando momento per momento, anche perché se in quel frangente di partita gli altri non hanno buoni tiratori di liberi è meglio fare fallo, mentre se magari si ha un quintetto piccolissimo e si fa fatica a prendere rimbalzi la situazione è differenze. Non c’è mai la soluzione giusta, ma credo che un’idea di base sia necessario averla.

Durante quei momenti, soprattutto a quell’età, la cosa più importante da fare è provare ad aiutare i giocatori a stare calmi, in particolar modo se così giovani, perché hanno una tensione enorme sulle loro spalle: stanno giocando una partita davanti a più di 50.000 persone, con un peso specifico elevato dovuto al significato che può avere vincere un titolo NCAA. Credo che l’unica cosa che puoi provare a fare, e spesso non ci si riesce, è tentare di farli rimanere calmi e guidarli alle scelte migliori, ma spesso questo è molto complicato.

  1. Tu sei laureato in economia: l’istruzione ad alto livello ti ha dato qualcosa nel tuo lavoro? Pensi che oggi, in Italia, sia complicato essere uno studente e un giocatore ad alto livello?

L’istruzione universitaria mi ha decisamente aiutato, aiutandomi a costruire un metodo didattico. Fare l’università mi ha aperto la testa: ho conosciuto molte persone e mi sono messo alla prova, perché non è stato facile laurearsi. Oltretutto, io già avevo iniziato ad allenare e mi piaceva tanto stare in palestra, quindi mi sono trovato a studiare in orari assurdi. È un percorso che, se lo porti a termine, ti dà il senso di aver fatto qualcosa e di aver superato un ostacolo importante e ti dà molta fiducia in te stesso. Sul piano materiale, ci sono molte persone che hanno fatto bellissime carriere senza avere una laurea, quindi sul piano tecnico incide relativamente, ma è importante nel rapporto con te stesso: il fatto di dire “mi sono laureato e ce l’ho fatta” è qualcosa che ti resta.

In Italia è drammaticamente complicato essere studenti e atleti, lo sto sperimentando con mio figlio qui a Milano. Mio figlio ci impiega tanto tempo per andare a scuola, torna a casa, svolge i suoi compiti e poi, giocando nelle giovanili di una squadra di A2 come l’Urania, durante la settimana si allena molto e in diverse palestre sparse per la città, quindi passa la maggior parte del suo tempo in metropolitana o in macchina con me o sua madre. Paragonato a quello che faceva prima, in cui andava a scuola e faceva sport, poi in dieci minuti arrivava in un Paese in cui vi erano solo palestre ovunque, è un ritmo di vita completamente opposto. Dicono che la situazione degli impianti in Italia è drammatica e me ne sto accorgendo in prima persona. È veramente triste, in un paese civile, pensare a quanti ragazzi e quante famiglie fanno sacrifici enormi affinché un giovane possa studiare e fare sport.

  1. In un’intervista di qualche anno fa dissi che se non fossi diventato allenatore, probabilmente saresti stato un professore… Ti sente un professore di pallacanestro?

Sicuramente mi sarebbe piaciuto insegnare, al di fuori della pallacanestro. Professore di pallacanestro è una parola forzata secondo me: diciamo che ogni allenatore ha una parte di insegnamento abbastanza importante che sia di tecnica, tattica oppure provare ad aiutare i giovani nel capire come la loro vita si può sviluppare. Nessuno vuole essere la soluzione dei problemi, però l’insegnamento è una parte di ciò che facciamo.

  1. Probabilmente solo a pensare all’accoppiata Popovich-Messina vengono i brividi, però in quel momento un allenatore dominate in Europa, si è messo “al servizio”, di uno dei più grandi allenatori del mondo. Cosa ti ha dato, a livello umano e tecnico, stare “dietro” ad un allenatore del genere? Perché questa, coraggiosa e non scontata, scelta?

Mi ha dato tantissimo quest’esperienza. Non è stata una scelta particolarmente coraggiosa: io avevo fatto ormai tanti anni in Italia ed Europa, ho avuto la possibilità di andare a lavorare con quello più bravo e l’ho colta. Io feci il paragone con gli anni ’60, quando io ero bambino, e c’era il dotto Barnard, il chirurgo sudafricano che ha fatto il primo trapianto di cuore: andare con Popovich è come per un medico andare a fare l’aiuto di Barnard. Popovich è il più bravo di tutti, è quello che ha aperto una strada e che probabilmente ne aprirà delle altre, oltretutto in un’organizzazione che è tutta a sua immagine e somiglianza in cui le regole vengono rispettate, le persone lavorano con impegno, vi sono determinati valori che sono fondamentali prima ancora di essere capaci o meno di giocare a pallacanestro: mi sembrava un’opportunità unica per fare lo sport che mi ha caratterizzato tutta la vita al più alto livello possibile umano. Credo di non averci pensato neanche mezzo secondo.

Poi, dopo 5 anni mi è tornata la voglia di avere una mia squadra, un mio staff e provare a fare le cose in un modo un po’ diverso rispetto a come le facevo prima sulla base di come le ho viste fare e di quello che ho imparato sia tecnicamente che a livello di relazioni e scelta delle persone. Sono fortunato perché ho avuto sia la possibilità di lavorare con Popovich, sia la possibilità ora di provarlo a fare di testa mia: tante persone durante la vita si impegnano tanto, ma l’opportunità non gli viene data, quindi riconosco di avere avuto fortuna.

  1. In un mondo virtuale in cui sono “tutti allenatori” e tutti “giocatori professionisti”, questo quanto impatta sulla comunicazione, ma anche sugli atteggiamenti di voi protagonisti reali in campo che vi trovate molto spesso bersagliati sui social?

Una cosa che ho imparato a San Antonio è cercare di capire che l’unica opinione che conta è quella delle persone che ti sono più vicine e tutto il resto è irrilevante, aggettivo che viene spesso usato a San Antonio. Non è facile, perché anche il livello di aggressività che si riscontra sui social media è pesante, sgradevole e ti può condizionare. Personalmente cerco di farne un uso molto limitato. Credo che bisogna essere molto meno istintivi rispetto a quello che si era 10/15 anni fa nei commenti e nelle reazioni e io faccio fatica perché sono una persona abbastanza istintiva. In questo momento il mondo è abbastanza complicato da questo punto di vista.

I social sono come la maggior parte delle cose: ad esempio, una pistola puoi usarla per difenderti o per ammazzare la gente; il cortisone può essere una medicina che ti salva la vita ma se lo usi nel modo sbagliato ti ammazza; la morfina può lenire la sofferenza di una persona gravemente malata, ma può anche essere una droga. Da questi esempi si capisce che è l’uso che nei fai dei mezzi: purtroppo l’uso che se ne sta facendo ultimamente è piuttosto becero.

  1. A proposito di social, tu sei una persona molto riservata: com’è Ettore Messina fuori dal campo?

È una persona molto normale: passo del tempo con mia moglie e mio figlio, se riesco vado a vedere i suoi allenamenti e le sue partite. Quando posso vado a giocare a tennis, che è uno sport che mi appassiona molto. La cosa bella di essere tornato in Italia è che ho ricominciato ad andare al cinema o a teatro con mia moglie, che è una cosa che mi piace molto.

Si ringraziano per la disponibilità e la gentilezza coach Ettore Messina e il responsabile della comunicazione dell’Olimpia Milano Claudio Limardi.

 Lucia Montanari

PRESENTAZIONE RUBRICA “STORIE A SPICCHI”

Nasce la nuova rubrica “Storie a spicchi”, che dai prossimi giorni potrete trovare su questo sito e sui canali social ad esso collegati.

La rubrica ha l’intento di raccontare le storie, gli eventi e le passioni di personaggi collegati al mondo della pallacanestro.

Cercheremo, durante le nostre interviste e tramite le loro stesse parole, di descrivere e raccontare punti salienti delle vite e carriere dei nostri ospiti, che magari in pochi sanno e che invece dovrebbero essere conosciute, perché parte fondamentale del percorso che li ha fatti diventare ciò che sono.

La volontà è quella di seguire una linea volta a trovare punti di contatto con le esperienza fuori e dentro il campo della vita di Davide Moretti raccontate dal punto di vista dei protagonisti della nostra rubrica, che le hanno vissute nella loro vita in prima persona.

Stay tuned!

di Lucia Montanari

LA CLASSE OPERAIA SALE AL POTERE!

 

Cosa sta facendo Tony Giovacchini in questo momento?
“Attualmente sono ancora collegato al basket e all’Italia, sono il socio americano di una società chiamata ” Delos “, producono un sistema che analizza e addestra il controllo propriocettivo, è un sistema a cui sono stato presentato mentre giocavo a Cantu e che ho utilizzato alla fine della mia carriera di giocatore, ho visto il valore che il sistema e la metodologia avrebbero potuto portare negli Stati Uniti e ho collaborato con l’azienda, attualmente lavoriamo con 16 squadre NBA e un certo numero di college. E’ molto gratificante continuare la mia connessione sia con l’Italia che con il basket “.

Puoi darci le tue impressioni, vivendo vicino al “Basketball sistem” della NBA e della NCAA, di quel modo così affascinante per noi?
“Le mie impressioni sull’NBA sono di costante stupore per le doti atletiche degli atleti. Vedere da vicino ciò che questi giocatori sono fisicamente in grado di fare ogni giorno è incredibile. Tuttavia, sono più interessato alla strategia dietro il gioco di squadra e come i team si preparano per i punti di forza degli altri e per attaccare le loro debolezze. Osservo le tendenze da vicino e il ritmo di gioco è aumentato nell’NBA, ci sono più tentativi da 3 punti in ogni match, quali sono le conseguenze? I giocatori sono più a rischio infortunio dovuto al ritmo più veloce, più possessi, più passaggi, ecc. Come possono competere le squadre che non hanno personale per giocare a questo tipo di basket? È sempre divertente continuare a guardare e imparare “.

Cosa ricordi della tua esperienza europea come giocatore?
“Ho bei ricordi della mia esperienza di giocatore europeo, ho avuto la fortuna di giocare per molti team diversi e quindi di sperimentare la vita in diverse città e con diversi compagni di squadra. Avere avuto esperienza di vita in molte regioni italiane è qualcosa che io e mia moglie ricordiamo spesso, ricordo anche la passione di tutte le persone coinvolte, dalle persone coinvolte in tutte le operazioni quotidiane del team, a quanto i fan seguivano ogni squadra, a dimostrare quanto il basket fosse amato da tutti “.

Quali sono le maggiori difficoltà che hai dovuto affrontare in un paese straniero?
“Le più grandi sfide che ho affrontato in un paese straniero si sono evolute di anno in anno: nel mio primo anno avevo 22 anni e giocavo ad Avellino, in quel momento non parlavo italiano, quindi la sfida più grande era la lingua. Le altre sfide sono diventate il modo di vivere una vita quotidiana così lontana da familiari e amici. Odio ammetterlo, ma eravamo solo all’inizio dell’era Internet in questo momento (2002), e semplicemente FaceTime era il mio primo compagno! Tuttavia, anche questa è stata una benedizione, in quanto mi ha costretto a interagire personalmente e a stabilire relazioni reali nella comunità: questo è stato il motivo per cui ho imparato la lingua rapidamente e forgiato vere amicizie con le persone intorno a me. ”

Quanto tempo ci è voluto per adattarsi a uno stile di gioco diverso?
“Anche l’adattamento dello stile di gioco è stato difficile, ricordo che nelle mie prime 2-3 stagioni, i concetti che mi venivano insegnati sembravano essere l’esatto contrario di quello che mi era stato insegnato negli Stati Uniti. In seguito, sono arrivati ​​alcuni concetti difensivi e la spaziatura offensiva e il movimento della palla. Quello che trovo interessante ora, è che anche se molti di questi concetti sembravano estranei e scorretti le prime volte che sono stato esposto a loro, ora credo che siano molto più efficaci per visualizzare e giocare a Basket. ”

Cosa ne pensi della stagione NCAA?
“La stagione NCAA quest’anno è interessante come sempre, ovviamente sono affascinato da Duke e dal potenziale di avere le prime 3 scelte del draft NBA come compagni di squadra, ma non sono imbattibili, come già dimostrato. La squadra di Virginia mi ricorda molto Stanford dove ho giocato per il loro stile di gioco e per il fatto che non sembrano mai mollare. Seguo da vicino la Pac-12 e lavoro con alcune di quelle squadre e ho giocato in quella Conference durante i miei anni di college. Sfortunatamente, quella conference sta avendo una stagione di basso profilo. Sinceramente spero che possano migliorare negli anni e portare qualche team alle Final Four. Seguo anche la Big 12. Con Kansas sempre favorita, è interessante vedere chi può sfidarli per la vittoria finale. In passato, è stato un numero di team diversi, con Baylor, West Virginia, con team molto competitivi. Potenzialmente, questo potrebbe essere l’anno in cui Texas Tech diventa il più pericoloso sfidante. È stato divertente seguirli durante la stagione di successo dello scorso anno con un potenziale ancora migliore quest’anno!

Anthony Giovacchini
Nato a Salt Lake City, 9 Settembre 1979 – USA Basketball player con passaporto italiano. 185 cm – 82 kg , playmaker.

Player
1998-2002 College: Stanford Cardinal
Club in Italy
2002-2003 Scandone Avellino
2003-2004 Roseto Sharks
2004-2005 RB Montecatini.
2005 Virtus Bologna
2005-2006 Viola Reggio Cal.
2006 Junior Casale
2006-2007 Fabriano Basket
2007 Basket Napoli
2007-2008 Olimpia Milano
2008-2010 Pall. Cantù
2010-2011 N.B. Brindisi
2011-2012 Veroli

LUIGI LAMONICA: MISTER DECIDERE!

Il nostro sito si riserva la facoltà di fare un’eccezione, per un ospite eccezionale. Infatti, quest’anno ci eravamo riproposti di ospitare uomini di basket internazionali che fossero stranieri.
Luigi Lamonica è invece italiano, ma di sicuro la sua caratura ha assunto una dimensione mondiale. Infatti, è l’arbitro di basket italiano più titolato e uno fra i più titolati al Mondo. Il suo palmares annovera 1 Finale Mondiale, 2 Semifinali Olimpiche, 5 Finali Europee, 5 Finali di Eurolega, 3 Finali di Eurocup, 3 Finali di Coppa FIBA (2 Europe League e 1 EuroCup), 23 Finali Scudetto, 9 Finali di Coppa Italia, oltre a tante altre finali giovanili e semifinali senior. A tutto marzo 2019, ha arbitrato oltre 690 gare in Serie A e oltre 670 gare in competizioni di rilevanza internazionale.
Inoltre, ha scritto un libro, “DECIDERE”, donando 5.000 euro a una onlus che si occupa di cura a domicilio dei malati di cancro.
Per questo abbiamo volentieri derogato alla linea che avevamo programmato. Ecco la nostra intervista.

Cosa fa Luigi Lamonica, nel basket e nella vita privata?
«Attualmente dirigo gare di Eurolega e di Eurocup. Questo mi lascia i weekend liberi, che cerco di organizzare coltivando il mio hobby preferito: la pallacanestro! Può sembrare che io sia uno stakanovista del basket oppure che io non abbia niente da fare nella mia vita privata, ma non è così: io mi diverto un mondo a seguire la pallacanestro, soprattutto perchè c’è sempre tanto da imparare e migliorare guardando una partita. A tutti i livelli: che sia di Eurolega o di serie D, si può sempre migliorare. Certo, quando finisce la stagione mi calmo un po’, la lascio in un cantuccio e mi dedico al mare, passando tutto il tempo possibile al sole a nuotare e visitando nuovi luoghi, soprattutto avendo la calma di poterli apprezzare senza dover pensare all’aereo che mi riporta a casa e alla partita della settimana successiva».

L’Euroleague, un mondo affascinante, che sta prendendo quota stagione dopo stagione, ci dai le tue impressioni dall’interno?
«Dall’interno, ti dico con orgoglio che essere parte della Lega più importante d’Europa è un traguardo appagante. Preparare, tutte le settimane, partite dove saranno impegnate squadre come Real Madrid, CSKA, Fenerbahce e tutte le altre 13 che danno vita ad uno spettacolo seguito anche nelle Americhe e in Asia è stimolante. Non ci si può fermare pensando di essere arrivati: bisogna studiare, lavorare, impegnarsi per meritarsi il privilegio di scendere in campo assieme ad attori del calibro di Sergio Llull, Nando De Colo, Vasilis Spanoulis, Zelimir Obradovic, David Blatt e tanti altri ancora. Sì, perché io lo reputo un privilegio enorme essere arrivato ad arbitrare questi campioni, così come considero un privilegio poter trasmettere la mia esperienza ai giovani arbitri che iniziano da poco a calcare i campi dell’Eurolega».

Cosa pensi della Lega A e del movimento “Basket Italia”, da osservatore esterno ma che conosce molto bene questo mondo?
«Stiamo attraversando un momento difficile, credo che nessuno lo possa negare, mitigato ultimamente dal ritrovato amore per la Nazionale che ha conseguito un fondamentale risultato per tutto il movimento, tornando a qualificarsi per una Coppa del Mondo dopo tanti anni. La situazione economica si sta riflettendo drammaticamente sulle società di pallacanestro, a tutti i livelli. Abbiamo perso la leadership in Europa sia dal punto di vista dei risultati delle nostre squadre sia dal punto di vista organizzativo, visto che la nostra Lega è sempre stata presa ad esempio per innovazioni ed intraprendenza da tutte le altre leghe europee (playoff, suddivisione in A1 e A2, fase ad orologio, istant replay, solo per fare alcuni esempi), mentre adesso non lo è più. L’attuale Lega ha iniziato, finalmente, un lavoro di ristrutturazione interna che porterà risultati, ma bisognerà avere pazienza e aspettare che i cambiamenti apportati all’interno del loro organigramma diano compattezza e una condivisione di intenti, inculcando a tutti gli attori che l’italico concetto “basta che il mio orticello sia il più bello di tutti” ha fatto tanti danni, per riparare ai quali occorreranno anni di duro lavoro. Mezzi ce ne sono pochi, certo, ma quei pochi devono essere investiti e spesi con oculatezza, senza alcun tipo di spreco o regalia, se si vuole, davvero, invertire la rotta».

Non esiste direttore di gara che non ami il basket. Tu sei anche tifoso di basket? Cioè, se viene trasmessa una partita NBA o NCAA, ti fermi e la guardi o cambi canale?
«Come ho detto prima, passo tantissimo tempo a vedere pallacanestro dal vivo oppure in TV. Tra una prima visione del film che ha vinto l’Oscar e una partita di pallacanestro, scelgo la partita di pallacanestro! Se poi dovesse essere troppo noiosa beh… cambio canale, ma a quel punto il film sarà già iniziato e siccome non capirò la trama… cambierò di nuovo canale tornando alla mia pallacanestro! La mia prima scelta è l’Eurolega, senza dubbio. Poi, tra una partita NBA di regular season e una di NCAA preferisco, e di gran lunga, quella di college».

Siamo curiosi di conoscere la tua esperienza nella Summer League NBA. Si era sparsa la voce di un tuo possibile approdo nel mondo del Basket americano, ci racconti i retroscena?
«È stata una esperienza incredibile, difficile trovare gli aggettivi giusti per descriverla. Del tutto inaspettata, nata da una telefonata di coach Ettore Messina, che non smetterò mai di ringraziare per aver pensato di fare il mio nome, tra i tanti europei, e concretizzatasi con un incontro, un caldissimo pomeriggio di giugno a Roma, con Bob Delaney, allora Vice Presidente del Dipartimento Arbitrale della NBA nonché Direttore degli Arbitri NBA. È stata una settimana di grandi emozioni: partecipare ai workshop mattutini con vere icone dell’arbitraggio NBA come Joey Crawford, Ben Salvatore, Eddie Rush lo stesso Bob Delaney; arbitrare 3 partite alla Summer League di Las Vegas; incontrare Mike Bantom, già grande giocatore visto in Italia per 7 anni quando io ero bambino, nei panni di Vice Presidente della NBA ed aver ricevuto una email da lui al termine di quella settimana, che conserverò gelosamente per il resto della mia vita tra i ricordi più belli della mia carriera; essere partito per un viaggio “senza speranza” e, giorno dopo giorno, avere invece avuto la netta sensazione che le distanze, tra noi e loro, così come è già accaduto per i giocatori e gli allenatori europei, non sono più cosi grandi. Insomma: tutto davvero molto bello e coinvolgente. Non so quando, ma tra non molto un arbitro europeo sarà chiamato ad arbitrare la NBA, anche se attualmente la cosa é impossibile per una clausola sul contratto stipulato dalla Lega con l’Associazione Arbitri, che prevede per tutti gli arbitri contrattualizzati con la NBA di seguire il percorso di formazione avuto da tutti i loro associati, ossia partire dalla G-League, senza alcun contratto e senza alcuna copertura assicurativa o previdenziale (e sappiamo bene che, negli Stati Uniti, senza assicurazione sanitaria occorre essere milionari per essere curati in un ospedale). Quindi, tornando a me e alla proposta ricevuta, un rischio che a quel tempo mi è sembrato troppo grande, anche in considerazione della mia età. Così è rimasto solo un sogno, anche se per una settimana mi era sembrato cosi reale!».

Il tuo libro “DECIDERE”: una grande idea, una grande emozione, un grande successo. Come e perché è nato questo splendido progetto?
«Se non fosse stato per l’amico giornalista e scrittore Luca Maggitti, “DECIDERE” non sarebbe diventato mai quello che è diventato. Luca ha avuto l’idea di concedermi l’uso del suo sito www.roseto.com per raccontare, tramite diari, la vita di un arbitro di pallacanestro mentre è impegnato nel suo lavoro. Avevo scritto per lui della Coppa del Mondo del 2010 e una stagione di Eurolega, quella 2010/2011 culminata per me con la finale di Barcellona tra Panathinaikos e Maccabi. Poi, 3 giorni prima di partire per l’Eurobasket 2011, in una delle nostre passeggiate sul lungomare di Roseto degli Abruzzi, Luca mi disse: “Luigi, il web va bene, arriva a tutti, è facile da consultare ed è moderno, ma vuoi mettere la bellezza di un libro? Il libro rimane per sempre”. La mia risposta fu: “Luca, un libro? Ma che dici? Chi vuoi che compri un libro di un arbitro di pallacanestro! E poi io non saprei da dove iniziare…”. Luca però era pronto: “Faccio io, tu devi solo scrivere. Al resto penso tutto io, ne ho fatti già alcuni. Ci penso io, parlo con la casa editrice, lo impagino, ti curo i particolari. Tu devi solo arbitrare bene e scrivere il diario, come hai fatto altre volte”. A quel punto non potevo tirarmi più indietro e cosi risposi: “OK, Luca. Io faccio quello che devo fare, al resto pensi tu”. E cosi è stato. Dopo 2 giorni, alla vigilia della partenza per la Lituania, avevo il preventivo della casa editoriale, i costi di stampa e tutto il resto. A quel tempo, Luca si era da poco occupato anche del libro “TIME OUT” di un nostro comune amico, coach Gabry Di Bonaventura, che aveva scritto un delizioso volume sulla sua carriera di giocatore e allenatore, mettendoci dentro anche la sua grande passione per la musica e il cinema, i cui proventi erano andati in beneficenza a una onlus dell’Aquila, città ferita da un terribile terremoto due anni prima. Quindi chiesi a Luca di individuare un progetto a cui devolvere i miei proventi. Lui mi propose di continuare ciò che Gabry aveva iniziato, pagando una borsa di studio per una fisioterapista della stessa onlus, “L’Aquila per la vita”, che si occupava di malati terminali di cancro. Il libro è piaciuto, abbiamo venduto le copie e ho devoluto la mia parte di ricavi alla fisioterapista che curava a domicilio i malati di cancro: credo che questo sia stato il mio fischio più importante».

Quali sono i progetti per il futuro di Luigi Lamonica, nel basket e fuori dal basket?
«Adesso arrivano i playoff di Eurolega, che saranno molto impegnativi: devo concentrarmi su quelli. Per il futuro, spero di rimanere nel mondo della pallacanestro come arbitro per qualche anno ancora: fino a quando il fisico reggerà e fino a quando mi renderò conto che riesco ancora a dirigere e aiutare e supportare gli arbitri giovani in campo. Poi, se qualcuno penserà che la mia esperienza sia utile per le prossime generazioni di arbitri, sarò lieto di trasmettere quello che mi è stato insegnato e che ho imparato, calcando tanti anni i campi di basket. Fuori dal campo, ho intrapreso un’attività di ristorazione con due amici a Cambridge, in Inghilterra, che ci sta dando buone soddisfazioni. Siamo in procinto di ampliarla aprendo altri ristoranti e, nel frattempo, grazie ad alcun incontri avvenuti in questi anni nel mondo della pallacanestro, spero a breve di iniziare un’attività di export, sempre nel campo alimentare. Come si può vedere, la pallacanestro è sempre “il motore” della mia vita. E spero lo continuerà ad essere per molto tempo ancora».

THE HAMMER! CHRISTOPHER “CHRIS” MCNEALY

Cosa sta facendo Chris McNealy in questo momento?
“Mia moglie ed io abbiamo un B & B sulle colline tra Bologna e Firenze, aiuto qui con tutte le attività quotidiane sulla gestione dell’azienda, oltre a fare tour per gruppi di americani che vengono in vacanza in Italia. Organizzo visite in varie città, musei, punti di interesse religiosi, degustazione di vini, ristoranti gastronomici, shopping, golf e molto altro.
Sono anche socio di un’azienda di abbigliamento uomo Italiana. Abbiamo linee di vestiti per abiti per persone di 2 metri e oltre. Di solito viaggio per incontrare
e servire clienti tipo giocatori che giocano in Italia e in tutta Europa “.

Cosa ricordi della tua esperienza europea?
“Ricordo soprattutto la crescita della persona che sono diventato vivendo e giocando in Europa, visto che un giovane americano che vive da solo in Europa ha comunque avuto momenti difficili e solitari lontano dalla famiglia e dagli amici, dopo essersi aperto e aver acquisito nuova esperienza. Ho scoperto un posto pieno di cultura con persone di grande cuore, aperte e sono stato in grado di capire che stavo vivendo il meglio dei due mondi. Ancora oggi vivo in Italia e negli Stati Uniti con amici in tutta Europa che visito spesso “.

Quali sono le maggiori difficoltà che hai dovuto affrontare in un paese straniero?
“Le mie prime difficoltà sono state la lingua e la mancanza di tutte le cose a cui ero abituato a casa: in quanto giocatore professionista le difficoltà sono davvero minori perché la squadra di solito si occupa di tutte le cose, ora come cittadino normale ho imparato a conoscere la burocrazia di fare affari in Italia, ha le sue difficoltà “.

Quanto tempo ci è voluto per adattarsi a uno stile di gioco diverso?
“All’inizio è stato un aggiustamento difficile, per me è stato più difficile l’adattamento al nuovo stile di vita e alle aspettative. Onestamente mi ci è voluta un’intera stagione e non ho mai avuto il giusto equilibrio fino a quando non sono tornato negli Stati Uniti e ho giocato nell’NBA…al mio ritorno in Italia ero un giocatore e una persona più matura e sapevo cosa aspettarmi “.

In che modo il reclutamento tra scuole e college americani è cambiato negli ultimi anni?
“I giocatori delle scuole superiori stanno ora prendendo decisioni se vogliono frequentare il college o avere la possibilità di diventare professionisti. I giocatori al college stanno prendendo decisioni in merito al loro completo periodo di eleggibilità o alla carriera professionale, drasticamente a causa delle opportunità finanziarie che hanno portato altre persone di loro interesse nel processo decisionale del giocatore “.

Quali sono i vantaggi per un atleta “one and done?
“Gli aspetti positivi sono le possibilità della ricchezza istantanea, quelli negativi sono la possibilità di fallire e di non avere un’educazione universitaria su cui contare”.

Cosa ne pensi della stagione NCAA?
“Quello del College è un basket molto eccitante, è fantastico per i giocatori imparare a giocare ad alto livello, ma anche prepararli per il loro futuro. Bilanciare gli studi scolastici e la formazione con il gioco sviluppa la responsabilità che i giocatori dovranno poi usare, nel gestire la loro vita come atleta professionista o nella normale vita di tutti i giorni “.

Christopher “Chris” McNealy (Fresno, 15 luglio 1961) ha giocato a basket come professionista nella NBA, in Italia e in Spagna. È il padre di Chris McNealy, a sua volta cestista. Sposato ed attualmente residente in Italia.
Ala piccola/Ala forte di 201 cm per 100 kg. Atleta dalla struttura fisica statuaria, devastant, debordante. Rapido e veloce, forte e verticale. Preferiva finire in area, ma poteva colpire anche fronte a canestro.

Carriera da Giocatore

Roosevelt High School
1979-1980
Santa Barbara Community College
1980-1983

Club
S. Jose St. Spartans 1983-1984
Trieste 1984-1985
Albany Patroons 1985-1986
B.S. Bombardiers 1986-1987
N.Y. Knicks 1987-1988
La Crosse Catbirds 1988-1989
Aurora Desio 1989-1990
Fortitudo Bologna 1990-1993
Montecatini S.C. 1993
Santeros de Aguada 1993-1994
Montecatini S.C. 1995
Gig. de Carolina 1995-1996
Andorra 1996-1997
León 1997-1998
Siviglia 1998-1999
Granada 1999

JOE BLAIR: IL CAMPIONE, COACH E GLOBETROTTER!

Cosa fa oggi JB, dentro e fuori dal campo?
“Io oggi sono il capo allenatore dei Rio Grande Valley Vipers, la squadra di sviluppo della G-League affiliata agli HOUSTON ROCKETS.”

Cosa ti ricordi della tua esperienza da giocatore in Europa?
“Io non ho nient’altro che grandi ricordi della mia esperienza in Europa. Ho avuto la possibilità di giocare con grandi giocatori, di essere allenato da grandi coaches e davanti ad alcuni dei pubblici di basket migliori al mondo! Ogni esperienza ed ogni persona che ho incontrato durante il viaggio della mia vita mi hanno aiutato ad essere l’uomo che sono oggi! Tantissime lezioni e tantissima saggezza, sia dentro che fuori dal campo!”

Qual’è la più grande difficoltà che hai incontrato vivendo in un paese straniero?
“Sinceramente, non ho incontrato molte difficoltà. Grazie alla mia capacità di assimilare e capire le nuove culture e le nuove esperienze. Se devo scegliere una cosa che a volte mi ha messo in difficoltà, dico il cibo. Sono vegetariano, e durante la mia carriera non è stato sempre facile trovare luoghi in cui approvvigionarsi per le mie necessità alimentari.”

Quanto tempo ti è servito per fare gli aggiustamenti al tuo stile di gioco lontano dagli Stati Uniti?
“Il basket era la parte più facile del gioco in Europa. Non ho dovuto fare nessun aggiustamento o vivere un periodo di aggiustamento rispetto al mio modo di giocare.”

Com’è cambiato il reclutamento delle High School e dei College in questi ultimi anni?
“Il reclutamento riguarda ora i team AAU e molto meno quello che i giovani fanno al liceo. Quando ero giovane io, tutto riguardava quello che faceva il tuo liceo e il modo in cui potevi elevare una squadra, si costruiva un sistema, si miglioravano i giocatori durante la stagione. Ora sembra che le squadre siano piene di giocatori con talento e non molto coaching. Niente contro questo sistema, ma al liceo non si ha il tempo di sviluppare un sistema e una cultura intorno alla squadra. Gli allenatori AAU non hanno l’opportunità ed il tempo di fare crescere i ragazzi, ma solo l’opportunità di metterli in mostra.”

Cosa ne pensi del “one and done” per i Freshman che fanno solo un anno di College e poi sono scelti tra i PRO?
“Capisco che possono essere attratti dall’opportunita’ di provvedere immediatamente alla loro famiglia accettando prima, un contratto professionistico, evitando così i rischi derivanti da possibili infortuni, od altri tipi di ostacoli.”

Cosa pensi della stagione NCAA che sta entrando nella fase caldissima?
“Io sono, e sempre sarò, un grande fan di ARIZONA UNIVERSITY! Quindi tutto quello che posso dire sulla stagione NCAA è….

BEARS DOWN!! GO CATS!!

Joseph Blair (nato ad Akron, Ohio, il 12 Giugno 1974) e’ stato un giocatore di basketball professionistico, e attualmente capo Allenatore dei Rio Grande Valley Vipers in NBA G League. Alto 2.10m, pesa 120 kg, ha giocato negli Stati Uniti e in Europa come Ala Forte e Centro. Il suo stile di gioco era caratterizzato dalla grande solidità mixata alla capacità di eccitare il pubblico con giocate molto spettacolari.

Carriera da giocatore:
High school
C.E. King (Houston, Texas)
College
Arizona (1992–1996)
NBA draft
1996 / Round: 2 / Pick: 35th overall
Selected by the Seattle SuperSonics

1996–2009
Position
Power forward / Center

Player career history
As player:
1996–1997
Pau-Orthez
1997–1998
Harlem Globetrotters
1998
Long Island Surf
1998–1999
Fila Biella
1999–2000
Scavolini Pesaro
2000–2001
PAOK
2001
Harlem Globetrotters
2001–2002
Scavolini Pesaro
2002–2004
Ülkerspor
2004–2007
Armani Jeans Milano
2007–2008
Spartak Primorje
2008–2009
Spartak Saint Petersburg

EuroLeague Regular Season MVP (2003)
All-EuroLeague Second Team (2002)

Carriera da coach:
2013–2015
Arizona (assistant)
2015–2018
Rio Grande Valley Vipers (assistant)
2018–present
Rio Grande Valley Vipers