Per la prima puntata della nuova rubrica “Storie a Spicchi” ho avuto l’onore e il piacere di chiacchierare con l’attuale coach dell’Olimpia Milano, Ettore Messina.

Coach Messina, durante l’intervista, ha affrontato diversi temi, in maniera approfondita, dando spunti molto interessanti, come una persona del suo calibro sa fare.

  1. Cosa pensi della scelta di un giovane italiano che decide di andare oltreoceano a giocare in un college? Cosa può dare l’esperienza collegiale ad un giocatore sotto il profilo culturale e tecnico?

Penso che sia una scelta molto intelligente che dovrebbero fare più ragazzi, perché dà la possibilità di trovare la competizione che in Italia ed Europa manca tra i 18 e i 22 anni e permette di vivere un’esperienza di vita fantastica come quella del college americano, in cui si ha anche l’occasione di imparare bene una lingua e completare gli studi. È una cosa che dovrebbero fare molti di più, anche perché ci sono diversi livelli di college, per cui anche se non sei uno molto bravo,  lo stesso puoi trovare un college dove giochi e fai un’esperienza così positiva. A mio parere è un’ottima scelta soprattutto a livello di vita.

Vivere e approcciarsi ad una cultura diversa, come lo è quella americana, apre la testa ad un giovane perché gli consente di conoscere persone, modi di vivere, modalità di studio e apprendimento differenti. Nei college vi è poi un fenomeno di aggregazione importantissimo che è quello della vita nel campus universitario, che porta a identificarsi con l’università e a diventare parte di un’organizzazione con la quale ci si sente veramente legati per tutta la vita. È un qualcosa che noi, qua in Italia, non possiamo neanche immaginare.

  1. Più volte in diverse interviste è stato chiesto a Davide che cosa fosse mancato per la vittoria del titolo NCAA e lui ha sempre risposto “fare fallo…”. Parto da qui per farti due domande: tu sei di un “partito” preso, ovvero fare fallo/difendere oppure si valuta situazione per situazione? Poi, che cosa succede in panchina a pochi secondi dalla fine di un match così importante durante un time out: prevalgono tecnica e razionalità o più enfasi e cuore?

Secondo me puoi avere un’idea generale, ma la maggior parte delle volte vai a sensazione, valutando momento per momento, anche perché se in quel frangente di partita gli altri non hanno buoni tiratori di liberi è meglio fare fallo, mentre se magari si ha un quintetto piccolissimo e si fa fatica a prendere rimbalzi la situazione è differenze. Non c’è mai la soluzione giusta, ma credo che un’idea di base sia necessario averla.

Durante quei momenti, soprattutto a quell’età, la cosa più importante da fare è provare ad aiutare i giocatori a stare calmi, in particolar modo se così giovani, perché hanno una tensione enorme sulle loro spalle: stanno giocando una partita davanti a più di 50.000 persone, con un peso specifico elevato dovuto al significato che può avere vincere un titolo NCAA. Credo che l’unica cosa che puoi provare a fare, e spesso non ci si riesce, è tentare di farli rimanere calmi e guidarli alle scelte migliori, ma spesso questo è molto complicato.

  1. Tu sei laureato in economia: l’istruzione ad alto livello ti ha dato qualcosa nel tuo lavoro? Pensi che oggi, in Italia, sia complicato essere uno studente e un giocatore ad alto livello?

L’istruzione universitaria mi ha decisamente aiutato, aiutandomi a costruire un metodo didattico. Fare l’università mi ha aperto la testa: ho conosciuto molte persone e mi sono messo alla prova, perché non è stato facile laurearsi. Oltretutto, io già avevo iniziato ad allenare e mi piaceva tanto stare in palestra, quindi mi sono trovato a studiare in orari assurdi. È un percorso che, se lo porti a termine, ti dà il senso di aver fatto qualcosa e di aver superato un ostacolo importante e ti dà molta fiducia in te stesso. Sul piano materiale, ci sono molte persone che hanno fatto bellissime carriere senza avere una laurea, quindi sul piano tecnico incide relativamente, ma è importante nel rapporto con te stesso: il fatto di dire “mi sono laureato e ce l’ho fatta” è qualcosa che ti resta.

In Italia è drammaticamente complicato essere studenti e atleti, lo sto sperimentando con mio figlio qui a Milano. Mio figlio ci impiega tanto tempo per andare a scuola, torna a casa, svolge i suoi compiti e poi, giocando nelle giovanili di una squadra di A2 come l’Urania, durante la settimana si allena molto e in diverse palestre sparse per la città, quindi passa la maggior parte del suo tempo in metropolitana o in macchina con me o sua madre. Paragonato a quello che faceva prima, in cui andava a scuola e faceva sport, poi in dieci minuti arrivava in un Paese in cui vi erano solo palestre ovunque, è un ritmo di vita completamente opposto. Dicono che la situazione degli impianti in Italia è drammatica e me ne sto accorgendo in prima persona. È veramente triste, in un paese civile, pensare a quanti ragazzi e quante famiglie fanno sacrifici enormi affinché un giovane possa studiare e fare sport.

  1. In un’intervista di qualche anno fa dissi che se non fossi diventato allenatore, probabilmente saresti stato un professore… Ti sente un professore di pallacanestro?

Sicuramente mi sarebbe piaciuto insegnare, al di fuori della pallacanestro. Professore di pallacanestro è una parola forzata secondo me: diciamo che ogni allenatore ha una parte di insegnamento abbastanza importante che sia di tecnica, tattica oppure provare ad aiutare i giovani nel capire come la loro vita si può sviluppare. Nessuno vuole essere la soluzione dei problemi, però l’insegnamento è una parte di ciò che facciamo.

  1. Probabilmente solo a pensare all’accoppiata Popovich-Messina vengono i brividi, però in quel momento un allenatore dominate in Europa, si è messo “al servizio”, di uno dei più grandi allenatori del mondo. Cosa ti ha dato, a livello umano e tecnico, stare “dietro” ad un allenatore del genere? Perché questa, coraggiosa e non scontata, scelta?

Mi ha dato tantissimo quest’esperienza. Non è stata una scelta particolarmente coraggiosa: io avevo fatto ormai tanti anni in Italia ed Europa, ho avuto la possibilità di andare a lavorare con quello più bravo e l’ho colta. Io feci il paragone con gli anni ’60, quando io ero bambino, e c’era il dotto Barnard, il chirurgo sudafricano che ha fatto il primo trapianto di cuore: andare con Popovich è come per un medico andare a fare l’aiuto di Barnard. Popovich è il più bravo di tutti, è quello che ha aperto una strada e che probabilmente ne aprirà delle altre, oltretutto in un’organizzazione che è tutta a sua immagine e somiglianza in cui le regole vengono rispettate, le persone lavorano con impegno, vi sono determinati valori che sono fondamentali prima ancora di essere capaci o meno di giocare a pallacanestro: mi sembrava un’opportunità unica per fare lo sport che mi ha caratterizzato tutta la vita al più alto livello possibile umano. Credo di non averci pensato neanche mezzo secondo.

Poi, dopo 5 anni mi è tornata la voglia di avere una mia squadra, un mio staff e provare a fare le cose in un modo un po’ diverso rispetto a come le facevo prima sulla base di come le ho viste fare e di quello che ho imparato sia tecnicamente che a livello di relazioni e scelta delle persone. Sono fortunato perché ho avuto sia la possibilità di lavorare con Popovich, sia la possibilità ora di provarlo a fare di testa mia: tante persone durante la vita si impegnano tanto, ma l’opportunità non gli viene data, quindi riconosco di avere avuto fortuna.

  1. In un mondo virtuale in cui sono “tutti allenatori” e tutti “giocatori professionisti”, questo quanto impatta sulla comunicazione, ma anche sugli atteggiamenti di voi protagonisti reali in campo che vi trovate molto spesso bersagliati sui social?

Una cosa che ho imparato a San Antonio è cercare di capire che l’unica opinione che conta è quella delle persone che ti sono più vicine e tutto il resto è irrilevante, aggettivo che viene spesso usato a San Antonio. Non è facile, perché anche il livello di aggressività che si riscontra sui social media è pesante, sgradevole e ti può condizionare. Personalmente cerco di farne un uso molto limitato. Credo che bisogna essere molto meno istintivi rispetto a quello che si era 10/15 anni fa nei commenti e nelle reazioni e io faccio fatica perché sono una persona abbastanza istintiva. In questo momento il mondo è abbastanza complicato da questo punto di vista.

I social sono come la maggior parte delle cose: ad esempio, una pistola puoi usarla per difenderti o per ammazzare la gente; il cortisone può essere una medicina che ti salva la vita ma se lo usi nel modo sbagliato ti ammazza; la morfina può lenire la sofferenza di una persona gravemente malata, ma può anche essere una droga. Da questi esempi si capisce che è l’uso che nei fai dei mezzi: purtroppo l’uso che se ne sta facendo ultimamente è piuttosto becero.

  1. A proposito di social, tu sei una persona molto riservata: com’è Ettore Messina fuori dal campo?

È una persona molto normale: passo del tempo con mia moglie e mio figlio, se riesco vado a vedere i suoi allenamenti e le sue partite. Quando posso vado a giocare a tennis, che è uno sport che mi appassiona molto. La cosa bella di essere tornato in Italia è che ho ricominciato ad andare al cinema o a teatro con mia moglie, che è una cosa che mi piace molto.

Si ringraziano per la disponibilità e la gentilezza coach Ettore Messina e il responsabile della comunicazione dell’Olimpia Milano Claudio Limardi.

 Lucia Montanari