Dopo Ettore Messina, abbiamo il piacere di “ospitare” per la nostra rubrica “Storie a Spicchi” un altro grande allenatore come Sergio Scariolo, allenatore campione NBA con i Toronto Raptors la scorsa stagione e campione del mondo con la Spagna lo scorso settembre in Cina. Coach Scariolo ha risposto alle nostre domande sul mondo collegiale, sul sistema spagnolo e ci ha raccontato anche qualche “segreto” di famiglia.

  1. Suo figlio ha appena accettato una scholarship a Manhattan, college di Division I: cosa pensa che l’esperienza collegiale possa dare ad un giocatore in formazione, sia dal punto di vista tecnico che caratteriale?

Io credo, pensiero confermato da amici come Paolo che ha un’esperienza fresca e attiva ancora con Davide, ma soprattutto da molti giocatori che hanno giocato nei college, i quali mi hanno detto tutti che quegli anni sono stati i più belli della loro vita, per una ragione o per l’altra. Tutti in famiglia avevamo la sensazione che questa esperienza valeva la pena di essere vissuta.

Dal punto di vista tecnico è talmente differente la situazione di un giocatore in una squadra e in certe situazioni, oltre al talento, è necessaria anche un pizzico di fortuna; infatti, da questo punto di vista, è un bilancio che faremo a posteriori. A priori, però, dal punto di vista personale, è la prima volta per mio figlio fuori di casa, vivrà in una grande città come New York, avrà la famiglia relativamente vicina, ma non tanto da poterlo aiutare quando ne ha bisogno nell’immediato e soprattutto si troverà davanti una nuova situazione a livello di gestione del tempo libero; anche se il programma giornaliero è molto strutturato, avrà un margine di autonomia in cui un ragazzo deve sapersi organizzare.

  1. Sempre più giovani, dopo l’esperienza europea, scelgono la strada collegiale oltreoceano: secondo lei, cosa manca al basket europeo a livello giovanile per trattenere i talenti nel vecchio continente anche in giovane età?

Oggi in Europa, a meno che un giocatore non sia già un fenomeno da avere a 18 anni già qualità per potere essere un uomo di rotazione e non uno dei 12, come avevano offerto a mio figlio in Unicaja, farebbe fatica a trovare i minuti necessari per crescere come dovrebbe. Un conto è avere dei minuti, un altro è non averne: se uno li ha, ovviamente è una riflessione che vale la pena, mentre se un giocatore ancora non li ha non vi è nessuna discussione e nessuna scelta.

In Europa non c’è nessuna competizione per fasce di età successive ai 18 anni, le nostre università non hanno nessun interesse a facilitare la vita e l’attività sportiva dei giovani studenti-giocatori. Credo che, a priori, l’unica situazione che ti offre entrambe le possibilità di studio e gioco è quella del college statunitense.

  1. Lei può essere definito l’uomo dei tre mondi: Italia, Spagna e USA. Qual è il ricordo più bello di ognuno di questi tre?

Vi sono tanti ricordi legati a persone, luoghi, squadre e successi. È molto difficile fare un ranking. Devo essere sincero, però, sono stato fortunato perché ho appunto amici, ricordi e qualche medaglia da esporre quando, finalmente, riuscirò a fare la mia “stanza bacheca”, che è uno dei miei progetti nel momento in cui mi fermerò. Mi ritengo molto fortunato di aver potuto vivere questa esperienze in situazioni diverse, Paesi diversi, tenendo presente anche la Russia, che è stata un’esperienza molto istruttiva in tutti i sensi.

  1. Una buona parte della sua carriera l’ha dedicata, però, alla nazionale spagnola, definendosi spagnolo di adozione. Che cosa vuol dire per un coach straniero allenare una nazione non sua?

Non mi sono mai definito spagnolo di adozione, è una definizione che mi hanno “appiccicato” e che non ribatto. È chiaro che ho scelto la Spagna come mio posto di residenza per me e per la mia famiglia, anche se io continuo a pensare da italiano, mi sento italiano e non ho nessuna sensazione che questa sia una contrapposizione.

Ho avuto la fortuna di vivere in due Paesi bellissimi, al di là degli altri in cui ho vissuto, e ho radici profonde in entrambi, che si possono perfettamente complementare.

Allenare da coach straniero una nazionale non è facile, soprattutto all’inizio in cui devi guadagnarti un’accettazione non tanto professionale, ma più che altro emotiva ed affettiva con magari più successi di quanti siano necessari per un allenatore locale. È una cosa che ho accettato, poi alla fine le cose sono andate bene e quindi non è il caso di guardarsi indietro.

  1. Ci può raccontare un aneddoto particolare della vittoria all’ultimo mondiale di Cina?

Dato che stiamo parlando in italiano e fa sempre piacere farlo, ti racconto questo flash, relativo al time out che chiesi a quattro minuti dalla fine di Italia-Spagna quando Danilo Gallinari mise il tiro da tre del +4 per l’Italia: la sensazione di grande tranquillità e fiducia che mi dettero i giocatori quando tornarono in panchina è un ricordo molto bello perché mi permisero di non dire una parola a livello motivazionale, ma di incentrare tutto il time out sulla parte tecnica, perché per il resto li vedevo molto in fiducia.

  1. Il sistema spagnolo è sicuramente un’eccellenza del basket europeo e lo ha dimostrato anche all’ultimo mondiale. Che cosa le piace particolarmente di questo sistema e cosa l’Italia potrebbe imparare?

Al di là delle situazioni della pallacanestro professionistica che comunque hanno pro e contro, è chiaro che ci sono, soprattutto quando parliamo di cultura sportiva, due situazioni che rendono il gap sportivo con la Spagna abbastanza importante in generale, non solo a livello di pallacanestro.

La prima grande differenza è lo sport nelle scuole: io credo che la pallacanestro soprattutto è trattata nelle scuole elementari e medie, nei piccoli e nei grandi club, in una maniera probabilmente unica nel mondo creando basi importanti di giocatori, ma anche di spettatori. Il secondo aspetto riguarda gli impianti: non parliamo solo del numero di grandi impianti spagnoli, rispetto all’Italia, parlo soprattutto dei piccoli/medi impianti in cui i ragazzini possono praticare, anche in riferimento agli impianti scolastici che hanno un livello di funzionamento ed efficienza veramente eccellenti. Questa credo sia la cosa più ammirabile ed imitabile.

  1. Le squadre di eccellenza spagnole come Real e Barcellona lanciano giocatori anche molto giovani con relativa facilità, cosa che in Italia avviene molto difficilmente. Lei ha saggiato entrambi i mondi: che cos’ha visto e provato di diverso tra le due mentalità? Perché secondo lei l’Italia non riesce ad uscire da una sorta di “circolo vizioso” e a creare nuovamente giocatori di alto profilo, cercando di ovviare al problema tramite la naturalizzazione di alcuni giovani promettenti?

È vero che questi grandi club spagnoli lanciano dei giovani, ma non possiamo fare neanche di tutta l’erba un fascio. Sicuramente ci sono stati giocatori più giovani rispetto a squadre di pari livello avversarie in altri paesi, Italia compresa. Io credo che il fatto di avere un livello sportivo che nelle competizioni nazionali mette al riparo da grandi sorprese, almeno fino ai playoff, debba essere una motivazione aggiunta per avere coraggio e lanciare giovani giocatori: se tu sei sicuro che alla fine nelle prime due alla fine ci arrivi sempre, c’è una motivazione in più. Onestamente, però, non credo sia una cosa tanto diffusa: per non andare tanto lontano però le due squadre citate stanno facendo giocare due giovanissimi come Garuba e Bolmaro in momenti importanti di partite che non sono fondamentali, però senz’altro aiuta ragazzi del 2001/2002 a fare esperienze importanti.

  1. Capitolo famiglia: da genitore di successo, cosa si prova a vedere un figlio che intraprende il proprio sport ad alto livello? Qual è il rapporto che lei e sua moglie, due mostri sacri, avete con vostro figlio Alessandro?

Abbiamo avuto un approccio diverso: io mi sono reso conto molto presto che mio figlio voleva percorrere la sua strada in maniera molto autonoma e per un periodo ha vissuto anche come un peso i cognomi che portava sulle spalle, facendo uno sforzo di reazione verso una sorta di “indipendenza” da questi cognomi e cercando di andare per la sua strada, addirittura andando nell’estremo opposto, tentando di evitare qualunque tipo di ragionamento e discorso, soprattutto quando veniva proposto da noi.

Mia moglie, che è un po’ più emozionale ed emotiva di me, ha avuto magari momenti in cui consigli ed opinioni dopo una partita le uscivano dalla bocca, mentre io magari, grazie a ciò che mi ha insegnato il mio lavoro, sapevo che dopo le partite era meglio tacere ed attendere che fosse lui a parlarne, come poi spesso ha fatto e fa. Se uno ha la pazienza di aspettare, è lui che poi tira fuori il discorso e chiede un’opinione o un consiglio.

È stata un’emozione vederlo vincere l’europeo e anche tante piccole partite come finali nazionali, regionali, interzona, ma chiaramente il campionato europeo U18 è stato il momento emozionale più importante, in cui le cose sono andate molto bene; tra l’altro io fortunatamente in quei giorni avevo due giorni di riposo dalla nazionale spagnola dopo la prima parte del ritiro e son potuto volare in Grecia e vedere semifinali e finali.

Sergio e Alessandro Scariolo dopo la vittoria dell’Europeo U18.
  1. Com’è Sergio Scariolo nel tempo libero?

Il discorso tempo libero è molto più teorico che reale, perché allenando un club e una nazionale e avendo, almeno per il momento, la responsabilità di tutte le nazionali giovanili dal punto di vista tecnico, di tempo libero me ne resta poco e lo dedico soprattutto alla famiglia.

Mi piace fare un allenamento personale al giorno, sia di cardio che di lavoro di forza con carichi naturali o pochissimi pesi. Mi piacciono cinema e serie TV: ormai Netflix è un compagno, un po’ trascurato ultimamente, ma è sempre lì.

Oltre alla pallacanestro, poi, mi piace fare sport e i miei due preferiti sono golf e paddle, anche se stiamo parlando di cose più teoriche che pratiche perché non ho molto tempo da dedicare a queste passioni.

Si ringrazia per la disponibilità e la gentilezza coach Sergio Scariolo.

di Lucia Montanari